La mafia pakistana del caporalato dietro l'assassinio di Adnan Siddique a Caltanissetta - QdS

La mafia pakistana del caporalato dietro l’assassinio di Adnan Siddique a Caltanissetta

Giuseppe Lazzaro Danzuso

La mafia pakistana del caporalato dietro l’assassinio di Adnan Siddique a Caltanissetta

lunedì 08 Giugno 2020

Tra le ipotesi sull'efferato delitto, questa prende sempre più corpo. Il comandante provinciale dei Carabinieri conferma che la vittima "aveva denunciato minacce da parte degli accusati del delitto". Giudice, segretario della Cgil nissena, "Giustizia per Adnan, cittadino modello". Come la mafia pakistana in Italia sfrutta i connazionali: la situazione nelle Marche, in Trentino, Veneto, Emilia, Calabria e Sicilia. Il segretario della Cgil etnea, Rota, "'sindacato di strada' nei Comuni agricoli per contrastare il lavoro nero". L'esperienza del progetto SfruttaZero a Scordia, nel Catanese

Aveva lo stesso nome di un divo di Lollywood, la Mecca del cinema pakistana, Adnan Siddique, il giovane di 32 anni nato a Lahore e ucciso a Caltanissetta. A quanto accertato dagli investigatori, da suoi connazionali.

In Italia da cinque anni, un buon lavoro come tecnico specializzato in elettronica e robotica, è stato accoltellato nella sua casa nel centro storico nisseno il tre giugno scorso. Trafitto da una lama lunga trenta centimetri perché aveva osato aiutare altri pakistani praticamente ridotti in schiavitù a denunciare quanto avevano subito ai Carabinieri.

Dando loro coraggio e aiutando i migranti a superare, grazie al suo perfetto italiano, anche l’ostacolo della lingua.

I Carabinieri, “la città è sconvolta”

“La città è sconvolta – ci ha detto il colonnello Baldassare Daidone, comandante provinciale dei Carabinieri di Caltanissetta, che hanno risolto il caso in appena diciannove ore -, perché qui, negli ultimi anni, ci sono stati soltanto tre omicidi. E questo è stato davvero efferato”.

Il gip Gigi Omar Modica ha lasciato in carcere i quattro fermati per l’omicidio: Muhammad Shoaib, di 27 anni, Alì Shujaat, di 32, Muhammed Bilal, di 21, e Imrad Muhammad Cheema, di quaranta. Mentre l’altro pakistano, Muhammad Mehdi, di 48 anni, arrestato per favoreggiamento, è stato rimesso in libertà con l’obbligo di firma.

Quel che non è ancora del tutto definito è il movente del delitto. Assume sempre più corpo l’ipotesi che gli assassini fossero dei “caporali” dediti alla gestione della manodopera pakistana a bassissimo costo nel settore agricolo.

Un delitto che ha suscitato scalpore

Il delitto ha suscitato scalpore in Pakistan, come dimostra questo servizio televisivo.

https://www.youtube.com/watch?v=xCoRAdcj19k

Adnan era molto legato alla famiglia: padre, madre e otto tra fratelli e sorelle vivono in Pakistan, dove abita anche un cugino al quale era molto legato.

E con il quale si era confidato.

Il cugino, dal Pakistan, conferma le minacce

“Aveva difeso una persona – riferisce Ahmed Raheel – e lo minacciavano per questo motivo. Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza, ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.

Ma Adnan era molto benvoluto anche a Caltanissetta. Quasi ogni giorno Adnan passava dal bar Lumiere nel centro storico, ordinava un caffè o una coca cola e con il suo carattere limpido, educato, gentile, si era fatto subito amare dai proprietari: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik, tanto che a volte lo avevano anche invitato a pranzo da loro.

In quelle ore insieme, Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano.

Gli amici, “era un bravo ragazzo, già lo avevano picchiato”

“Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno – lo avevano picchiato”.

E Piera, ricordandolo in un post su Facebook, ha scritto: “Era un bravo ragazzo educato… per i miei figli era un fratello e per me un figlio. Era venuto qui per costruirsi un futuro ed era un genio nell’aggiustare macchinari elettronici. Non doveva morire così in questa città che lui amava. Addio Adnan, questo è il suo nome”.

Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, ha confermato che era “bravissimo, gentile”.

“Quelli che lo hanno ucciso – ha aggiunto – invece no. Si ubriacavano spesso”.

La Cgil, “Giustizia per Adnan, cittadino modello”

“Se le ipotesi investigative – ha commentato Ignazio Giudice, segretario generale della Cgil nissena – dovessero essere confermate, ci troveremmo di fronte a un disastro sociale e umano. Chi si è fatto portavoce di un disagio è stato assassinato: lo stesso modo di procedere della mafia. E noi chiediamo giustizia per Adnan, cittadino modello, agli inquirenti che sapranno risalire al movente, consapevoli che a Caltanissetta risiedono centinaia di pakistani i quali, come i nisseni, meritano serenità dopo questo atroce delitto”.

Nella provincia nissena il numero dei pakistani, che oggi sono 597, si è quasi dimezzato rispetto al 2017.
Sei sono ospiti in comunità e altri sessantasette richiedenti asilo si trovano nel Centro di accoglienza di Pian del Lago, in attesa di ottenere il permesso di soggiorno.
Ma c’è anche una vera e propria comunità proveniente dal Punjab.

Il venti per cento dei lavoratori agricoli di Caltanissetta

“I lavoratori agricoli pakistani – hanno sottolineato in una nota congiunta i segretari della Flai Cgil Sicilia e Caltanissetta, Tonino Russo e Giuseppe Randazzo – rappresentano il dieci per cento del totale dei lavoratori stranieri, comunitari e non, nella provincia. E nella sola città di Caltanissetta il venti per cento dei lavoratori agricoli, la comunità straniera più numerosa”.

Come la mafia pakistana in Italia sfrutta i connazionali

A proposito dell’ipotesi di una mafia pakistana che, in Italia, riduce in schiavitù i propri connazionali e non solo, è sufficiente una rapida ricerca sul web per averne conferma.  
Lo dimostra l’arresto da parte della Digos, il trenta gennaio del 2018, nell’aeroporto di Capo di Chino, di Akhtar Jahamgir, residente a Napoli e indicato come capo di un’organizzazione mafiosa pakistana che faceva ottenere visti d’ingresso in Italia con un costo di circa diecimila euro e trovava ai propri connazionali datori di lavoro italiani disposti a presentare richieste di sanatoria false in cambio di cinquemila euro.

La situazione nelle Marche

L’undici ottobre del 2018, ad Arcevia, in provincia di Ancona, nelle Marche, fu arrestato un imprenditore pakistano di 27 anni per intermediazione e sfruttamento dei suoi connazionali durante la vendemmia.
Nei vigneti del Comune di Fossombrone, i Carabinieri avevano sorpreso migranti reclutati dal pakistano, che li ospitava in condizioni degradanti, lasciandoli a dormire su materassi adagiati sul pavimento e dando loro da mangiare pretendendo in cambio parte della paga: quattro o cinque euro l’ora.
E il 22 maggio di quest’anno un altro pakistano titolare di un’impresa di intermediazione è stato arrestato dalla Polizia sempre in provincia di Ancona, a Senigallia, per un vasto giro di caporalato nei campi e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Approfittando dello stato di bisogno reclutavano i migranti per impiegarli in diverse aziende agricole del senigalliese, che erano d’accordo con loro.
Anche qui veniva applicato il “contratto pakistano”: pochi euro l’ora e una quota da pagare per vitto e alloggio in un immobile fatiscente.

Il 14 maggio del 2019 furono arrestati sempre nelle Marche, a Pesaro Urbino, per sfruttamento del lavoro nell’operazione denominata “Capestro” quattro impresari pakistani.
“Alcuni – aveva spiegato Andrea Piccolo della Cgil, che aveva presentato la denuncia – arrivavano a lavorare anche sedici ore al giorno, per trecento ore alla settimana, guadagnando poco più di mille euro al mese. Ma erano costretti a restituirne in media cinquecento ai datori di lavoro pakistani”.

Piccolo aveva aggiunto di esser riuscito a farsi raccontare tutto soltanto dopo mesi, perché i lavoratori pakistani erano chiusi e spaventati per il rischio di perdere il lavoro e dunque la possibilità di restare legalmente nel nostro Paese: “Il loro permesso di soggiorno è legato allo svolgimento di un’attività e per rimanere in Italia sono disposti a tutto. Uno di loro, ad esempio, è omosessuale e in Pakistan pende su di lui una condanna a morte. Pur di restare qui sarebbe disposto a lavorare venti ore al giorno, gratis solo per un pezzo di pane e un alloggio”.

La situazione nel Trentino, Veneto ed Emilia

Il 25 febbraio di quest’anno si è svolto in Trentino il processo al titolare della Green Service e il suo vice, entrambi pakistani. Ottenuti in subappalto lavori di fascicolatura e rilegatura di libri, nell’autunno del 2016, mantenevano in un capannone di Aldeno, in provincia di Trento, in condizioni di semischiavitù novanta connazionali, costretti a lavorare con orari impossibili – fino a 27 ore consecutive – e pagati quattro euro l’ora.

Il quindici aprile a Forlì, in Emilia, un’indagine della Squadra Mobile ha scoperto “una vera e propria organizzazione criminale” guidata da quattro pakistani, tutti arrestati.
Avevano arruolato quarantacinque braccianti, tutti richiedenti asilo pakistani o afgani. Li pagavano cinque euro all’ora costringendoli a lavorare anche ottanta ore a settimana, quando la legge prevede 9,60 euro per un massimo di 44 ore. Alla fine, i braccianti percepivano soltanto duecentocinquanta euro alla settimana, ma duecento dovevano pagarli per il vitto e l’alloggio in casolari abbandonati in pessime condizioni igienico-sanitarie. Durante il lavoro, era proibito andare in bagno o fare una pausa pranzo, e chi aveva protestato era stato minacciato.

Il sei maggio, per aver ridotto in schiavitù dei lavoratori, quattro persone, due pakistani e le loro compagne – una cittadina italiana e una spagnola -, sono state arrestate nel Trevigiano, a Roncade. La loro azienda reclutava stranieri da impiegare come manodopera per lavorare nelle aziende del territorio. Anche qui veniva applicato il “contratto pakistano”: le vittime erano alloggiate in case diroccate in campagna, senza riscaldamento ed energia elettrica, svegliate alle prime ore della mattina, per evitare i controlli dei Carabinieri, e stipate all’interno di furgoni, per poi essere condotti nei vigneti anche il sabato e la domenica, sotto stretta sorveglianza e sotto intimidazioni.

La situazione in Calabria

Ma i pakistani non “gestiscono” soltanto i propri connazionali: il ventotto aprile di quest’anno a Cassano, in provincia di Cosenza, in Calabria, una cinquantina di braccianti agricoli africani di diverse etnie – gambiani, ghanesi, nigeriani e senegalesi – si sono scagliati contro i caporali denunciando pakistani, che li reclutavano nel parcheggio delle Poste, ai sindacati e ai carabinieri.
E il quattordici maggio il sindaco di Cassano Gianni Papasso ha dichiarato, in un Comune di emigrazione e lotte contadine, di condividere la posizione della ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova sui permessi di soggiorno e la regolamentazione dei migranti, iscrivendoli anche all’anagrafe comunale, per combattere questa forma di schiavitù.

La situazione in Sicilia

“In Sicilia la metà dei braccianti agricoli lavora in nero e spesso in condizioni disumane” ha affermato nei giorni scorsi la vicepresidente dell’Ars, Angela Foti, citando la situazione di Cassibile, frazione rurale di Siracusa, dove tra febbraio e giugno centinaia di braccianti agricoli africani “vivono in baracche subendo una grave condizione di sfruttamento”.

Angela Foti ha presentato un’interrogazione al governo Musumeci, ricordando come il tredici giugno dello scorso anno il presidente della Regione avesse deciso di attuare strategie di controllo del territorio contro il caporalato in base a un protocollo stipulato nell’aprile 2018 con il ministero dell’Interno, nell’ambito del Pon Legalità 2014/2020. Un programma che prevedeva infrastrutture per la videosorveglianza in numerosi Comuni del Ragusano e del Catanese.

E nella provincia etnea la Cgil di Catania “lavora da anni contro il caporalato e lo sfruttamento della manodopera in agricoltura così come in altri settori” ha affermato il segretario generale Giacomo Rota.

“Insieme alla Flai – ha sottolineato – negli anni passati abbiamo svolto un lavoro di controllo del territorio con azioni di ‘sindacato di strada’ nei Comuni agricoli per contrastare il lavoro nero, il caporalato e lo sfruttamento. L’analisi della Cgil e della Flai non solo catanese ma siciliana, compresa per esempio quella nissena, ha contribuito ai lavori preparatori della legge 199”.

Il reato di caporalato è stato introdotto con una legge del 2011, ma i risultati nella lotta allo sfruttamento non sono stati esaltanti: da qui la riforma del 2016. La legge n. 199 del 2016 allarga il caporalato a prescindere dalla forma, organizzata o meno, dell’attività di intermediazione e indipendentemente dalle modalità, violente o intimidatorie. Altra novità fondamentale consiste nella previsione di una responsabilità penale per il datore di lavoro che “utilizza o impiega manodopera” mediante l’attività di intermediazione.

“Inoltre – ha aggiunto Rota – la Cgil continua ogni giorno la sua opera per l’integrazione con un Ufficio Immigrati che assiste migliaia di persone ogni anno. E in via Crociferi ospita una sezione di scuola statale per i migranti e offre spazi per attività culturali e religiose che consentano una continua integrazione”.

Ma ci sono anche iniziative specifiche, come il Progetto SfruttaZero, di cui ci ha parlato Manuel Sammartino della Cgil.

Il progetto è stato avviato in gennaio con la collaborazione del sindacato e del Comune di Scordia dall’associazione Penelope: una campagna di sensibilizzazione e denuncia delle situazioni di grave sfruttamento lavorativo a carico dei lavoratori migranti stagionali, spesso irregolari e dunque ricattabili.

https://www.facebook.com/penelopenontratta/

Il colonnello Daidone concorda sul “filo rosso”

Tornando al movente del delitto di Adnan Siddique, abbiamo elencato gli episodi sopra riportati al comandante dei Carabinieri Daidone, che ha concordato sul fatto che parrebbe esserci un “filo rosso” tra essi.

Ma sull’ipotesi di una mafia pakistana che gestisce il caporalato a Caltanissetta, ha risposto: “Ci sono delle indagini in corso: in questo momento non possiamo ovviamente aggiungere nulla”.

Una cosa però il colonnello tiene a dire: che la comunità pakistana di Caltanissetta ha collaborato intensamente con i militari per consentire di individuare i responsabili.

“In questa comunità ci sono tante brave persone, miti, che lavorano e non danno fastidio a nessuno, come Adnan Siddique: anche lui aveva denunciato minacce da parte degli accusati del delitto”.

Bisognerà ancora attendere, dunque, gli sviluppi investigativi di questo che sembra un racconto uscito dalla penna di Mario Puzo, in cui però la mafia è pakistana e non siciliana e Caltanissetta è l’America.

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