Sapere cosa dire, ma saperlo dire - QdS

Sapere cosa dire, ma saperlo dire

Carlo Alberto Tregua

Sapere cosa dire, ma saperlo dire

mercoledì 15 Aprile 2009

Diceva Ettore Petrolini (1884-1936): “Quello non dice nulla, ma lo sa dire”. Quanta gente sentiamo cui potremmo adattare questa frase sferzante. Accade perché essa parla, ma non sa cosa dire, spesso ha le idee confuse, non ha fatto allenamento nella scrittura, ha letto poco, ha una scarsa dimestichezza con la lingua madre. Ci sovviene il vecchio saggio, che soleva dire: “Si tratta di braccia tolte all’agricoltura”.
Questa è l’era della comunicazione. Tutti vogliono parlare, non perché abbiano qualcosa di dire, ma per farsi vedere, ritenendo di essere bravi. Comunicare, parlare in pubblico o in ambienti ristretti non è una dote naturale, ma frutto di studio, prove, sacrifici. Frutto anche della consapevolezza di esprimersi per concetti e non per parole. Com’è noto, infatti, i concetti sono frasi strutturate, mentre le parole sono quasi sempre in libertà e servono più per dar fiato alla bocca che per comunicare.

“Quello ha la testa per dividere le orecchie” si usa dire di qualcuno che non avendo materia grigia difficilmente la può usare. Poi vi è qualcun altro che invece possiede la materia grigia, ma ha una pigrizia innata che non gli consente di adoperarla.
La regola è: “Sapere cosa dire e poi comunicarlo bene”, cioè in modo ordinato, progressivo e soprattutto rispettoso di chi ascolta. La comunicazione è bilaterale e si fonda sulla partecipazione delle due parti. Se non si realizza empatia fra chi parla e chi ascolta, l’interesse arriva a zero e l’attenzione crolla totalmente, col risultato di far fallire l’intento del comunicatore.
Comunicare non è un’arte. Anche gli attori o i comici, salvo i geni o gli istinti naturali, diventano bravi se studiano continuamente e senza sosta. Come si può pensare che un pincopallino qualsiasi possa improvvisare una performance con un microfono (in gergo “gelato”) vicino le labbra! Passa dal noioso al ridicolo, ma non se ne accorge e continua a tediare gli astanti.

A monte delle regole del sapere e della relativa comunicazione, vi è la consapevolezza che l’elaborazione di ciascuno di noi dev’essere fondata sui valori laici, antecedenti a quelli religiosi. Quei valori cui si devono uniformare le nostre argomentazioni di merito.
Solo quando abbiamo messo i paletti del metodo, possiamo avviarci a cosa dire e a come dirlo. Non è facile procedere in questo modo, perché spesso l’improvvisazione crea brutti scherzi, ma non possiamo renderci ridicoli pensando di fare quello che non sappiamo fare.
Non che tanti tromboni, i quali pensano di posseder le arti dell’oratoria e della retorica, siano accettati dai cittadini che non fanno il mestiere dei politici. Anzi, i tromboni sono più deprecati perché professionisti della parola. Tanto più quando volontariamente tentano di gabellare chi ascolta con menzogne e promesse. Se ci fosse l’Inferno post mortem è li che dovrebbero andare. Ma, chissà?

Non è che i preti quando fanno le omelie attirino l’interesse dei fedeli nelle chiese delle diverse religioni. Salvo alcuni di essi che, dotati di intelligenza, elaborano il loro pensiero non citando continuamente questo o quello, come accade nel Corano o nei Vangeli, ma pensano di dare un proprio contributo autonomo alle questioni che affrontano e comunicano. Quanti preti, quasi per scusarsi dell’obbligo dell’omelia, chiedono ai presenti di avere pazienza. Ma se l’argomentazione è interessante non ce n’è bisogno, perché l’attenzione è automatica e conseguente agli argomenti che si ascoltano.
L’intelligenza è un bene prezioso che governa l’umanità. Ma non sempre è così. Vi sono intelligenze maligne, che cercano di sopraffarne altre. La discriminazione fra il bene e il male è nata con l’uomo. Dio ha messo a disposizione di tutti la facoltà di scegliere, dotandoli del libero arbitrio. Quindi chiamare in causa Allah, Zoroastro (VII-VI sec. a.C.) o Horo (culto egizio predinastico) è una debolezza umana che cerca soccorso nell’essere superiore.
Sembra che abbiamo deviato dall’argomento iniziale, ma c’è una stretta connessione fra l’elaborazione del pensiero, la sua comunicazione e i comportamenti. Riflettiamoci.

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