“Uno più uno fa tre”: riforma banche popolari è violazione dell’art. 45 della Costituzione - QdS

“Uno più uno fa tre”: riforma banche popolari è violazione dell’art. 45 della Costituzione

“Uno più uno fa tre”: riforma banche popolari è violazione dell’art. 45 della Costituzione

martedì 16 Giugno 2015

Il 10 aprile a S.Cataldo (Cl) l’economista Marco Vitale ha tenuto una conferenza sul credito cooperativo e sul pluralismo bancario. Il nostro ordinamento tutela la cooperazione a caratteri di mutualità. Il giurista Capelli: “Fare ricorso”

Il Consiglio della Regione Lombardia, all’inizio del mese di maggio, aveva approvato una mozione, primo firmatario Antonio Saggese, che impegnava la Giunta a presentare ricorso alla Corte Costituzionale contro la legge n. 33/2015 del 24 marzo, contenente “misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”, che ha imposto a dieci banche popolari l’obbligo di trasformarsi in società per azioni. La Lombardia, nello stesso mese di maggio, ha già presentato il ricorso.
Il giurista esperto di diritto internazionale Fausto Capelli, da anni in prima linea nelle questioni giuridiche europee, precisa che “se anche la Regione Sicilia e le altre regioni italiane seguissero l’esempio lombardo, le probabilità di successo del ricorso aumenterebbero”, oltre a suggerire che sarebbe opportuno coinvolgere l’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Il Credito Cooperativo è un sistema a rete, la cui principale caratteristica, che lo distingue dalle tradizionali s.p.a., consiste nel perseguimento di uno scopo mutualistico, nel voto capitario, ossia “una testa, un voto”, e nel modello di s.r.l., motivo per cui i soci, in caso di fallimento e conseguente liquidazione, non ne rispondono con i propri beni personali, ma i creditori potranno soddisfarsi esclusivamente sul patrimonio sociale. Il principio del voto capitario e il fatto che ogni socio possa detenere al massimo l’1% del capitale sociale evitano la concentrazione del potere nelle mani di una maggioranza, detentore del pacchetto azionario in misura maggiore rispetto agli altri, che di conseguenza potrebbe “pilotare” il gioco assembleare, dalla nomina dei membri del Cda all’approvazione delle eventuali modifiche statutarie.
Tali caratteristiche, che da un lato limitano le prospettive di una crescita in termini quantitativi, dall’altro favoriscono uno stretto legame tra le banche in questione, all’interno delle quali rientrano le Popolari, e il territorio di appartenenza con le relative imprese che vi operano, del quale hanno interesse a favorire lo sviluppo socio-economico e occupazionale.
La cd. Riforma delle Popolari, attraverso la modifica di alcune norme del Tub (artt. 29 e 30 del Testo unico bancario) stabilisce che tutte le Banche Popolari con un patrimonio superiore a 8 miliardi di euro devono trasformarsi in s.p.a. entro i prossimi 18 mesi; ad esse verrà tuttavia permesso, per evitare “scalate ostili”, di fissare un tetto del 5% ai diritti di voto in assemblea, ma tale facoltà potrà essere esercitata soltanto per i prossimi 24 mesi. La nuova legge individua come destinatarie del provvedimento dieci Banche Popolari: Ubi, Banco Popolare, Bpm, Bper, Creval, Popolare di Sondrio, Banca Etruria, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Bari, alle quali potrebbe aggiungersene un’altra, in caso di fusione tra la Popolare di Marostica e la Volksbank dell’Alto Adige.
A tal proposito, si è svolta a S. Cataldo (CL) presso il Centro di Studi sulla Cooperazione “A. Cammarata”, la conferenza tenuta dall’economista d’impresa Marco Vitale, sull’attacco al credito cooperativo, dal titolo “Uno più uno fa tre – L’ispirazione del credito cooperativo e i motivi del pluralismo bancario in Italia”. Il dott. Vitale, precisando come la legge configuri una violazione dell’art. 45 Cost., che tutela la cooperazione a caratteri di mutualità e senza fini di speculazione privata, spiega che l’imminente rivoluzione del sistema creditizio si fonda su due “non verità”: innanzitutto, “che, in materia bancaria, solo le grandi dimensioni contano e solo il patrimonio è baluardo di stabilità”; in secondo luogo, l’errata convinzione secondo la quale “il provvedimento interessa solo un gruppetto di banche popolari e lì si fermerà”, mentre “si tratta solo di un primo passo per scardinare totalmente il credito cooperativo”, attraverso la graduale estensione dell’obbligo ad altre banche popolari e, nelle more, alle BCC nel loro insieme, con effetti innegabilmente svantaggiosi e quasi letali per le PMI, impegnate nel preservare il tessuto produttivo e nel garantire livelli occupazionali.
La Banca d’Italia è definita “acritico megafono del pensiero dominante”, il medesimo che condusse al disastro finanziario del 2008, proveniente dall’America, dove è da individuare la provenienza di questo modus operandi, che mira a consegnare il Paese nelle mani di pochi, giganteschi, imperanti nuclei di potere.
D’altronde, spiega Vitale, la noncuranza nei confronti delle gravi ripercussioni che potrebbero derivarne si basa sulla convinzione in base alla quale, nel caso in cui le banche diventassero più grandi, rigide, patrimonializzate, anonime e staccate dal territorio, si potrebbe ripiegare pur sempre sul cd. shadow banking system e sulle speculazioni finanziarie, ricreando il pericolosissimo “gigantismo bancario” dei primi anni del ‘900.
Mediante un’analisi delle cause che portarono al precedente dissesto, Vitale deduce l’insensatezza della pretesa di far proprio un approccio elaborato in Paesi con caratteristiche, esigenze e priorità totalmente diverse rispetto all’Italia, che piuttosto si regge su un sistema di piccole e medie imprese che, invece, rappresentano una risorsa da tutelare e favorire per la ripresa economico-finanziaria italiana; non a caso quelle di maggiori dimensioni sono emigrate o sono state vendute, come la Fiat e la Pirelli. La giustificazione su cui fa leva la nuova legge e coloro che la supportano è la ricerca della contendibilità, considerata in grado di garantire “buona salute alle ex banche popolari”. Eppure la domanda posta da Vitale, riprendendo i concetti di economia di concorrenza formulati da Einaudi, è di carattere diametralmente opposto: se fosse, piuttosto, la stabilità a dover essere preservata?
Le giustificazioni addotte a sostegno dell’opportunità e della convenienza della legge in esame sono state analizzate da 156 esperti economisti, che ne hanno evidenziato inconsistenza e falsità e il cui pensiero Vitale ha sintetizzato durante la conferenza: “L’infondatezza degli argomenti adottati preoccupa molto più del provvedimento stesso. Eppure quest’analisi seria non è stata ritenuta neppure degna di discussione. Ma che paese siamo diventati se procediamo a colpi di fiducia, senza accettare un serio dibattito, anche su questioni di tale importanza? Possiamo ancora chiamare Parlamento una cosa che avalla qualunque progetto venga dal Governo? E la Banca d’Italia, con la quale una volta poteva discutersi su un livello di serietà professionale e scientifica, il cui direttore si spinge fino ad affermare che la stella polare sia la forza patrimoniale delle banche, come mai mostra una sempre più scarsa conoscenza e rispetto del sistema italiano? Forse perché nel suo gruppo dirigente non ci sono più veri banchieri o perché siamo ormai al limite, oltre il quale diventiamo paese coloniale?”.
 


La Regione Lombardia ha presentato ricorso
 
La Lombardia, nel cui territorio si registra la più elevata presenza di banche popolari attive rispetto al resto della penisola, venerdì 22 maggio 2015 ha presentato ricorso alla Consulta contro l’art. 1 del d.l. n. 3/2015 convertito con modificazioni dalla legge 33/2015. Si tratta della riforma, approvata dal governo Renzi con 155 sì e 92 no, avente ad oggetto la trasformazione delle suddette banche in s.p.a. e, dunque, il trasferimento delle stesse nelle mani dei grandi investitori istituzionali.
La Giunta regionale, facendo leva sul terzo comma dell’art. 117 Cost., ritiene la legge “incostituzionale” e invasiva dell’autonomia regionale e Antonio Saggese, consigliere della Lombardia, ha sottolineato che “sarebbe stato opportuno, anche in considerazione del principio di sussidiarietà, coinvolgere nella fase propositiva una delle regioni con il maggior numero di popolari investite dalla riforma”, individuando la ragione dell’incostituzionalità nel fatto che “le banche in questione, considerato il loro stretto legame con il territorio, hanno un ruolo regionale”.  Inoltre, ulteriori cause di illegittimità sono da individuare nella “non ricorrenza dei principi di necessità e urgenza alla base del decreto legge che ha disposto la trasformazione e delle norme costituzionali sulla cooperazione”.
Il presidente Maroni, in linea con l’opinione del primo firmatario Saggese, ha precisato che le Popolari sono una “realtà che va salvaguardata” ed entrambi i leghisti denunciano l’illegittimità della legge sottolineando che “la trasformazione del voto capitario in un voto tipico azionario espropri, senza alcun indennizzo da parte dello Stato, il diritto di voto cooperativo, ledendo così i diritti di libertà e democrazia”. Infatti, a causa della concentrazione, si assisterà alla chiusura di numerosi sportelli, chiusura che rappresenterà il primo tassello di un pericoloso iter che condurrà all’aumento della disoccupazione e alla riduzione del credito.
 
Queste le preoccupazioni della Giunta, che ha dato mandato all’Avvocatura di procedere in tribunale contro le trasformazioni stabilite, che appaiono essere un insieme di forzature di dubbia legittimità costituzionale. Oltre a Lega Nord, che ha optato per il percorso giudiziario, non manca chi tenta di individuare vie alternative, quali forme diverse di partecipazione popolare, come il sindacato dei bancari della Uil, Uilca, che si è rivolto a un comitato scientifico, di cui fa parte il deputato Stefano Fassina (Pd). La Regione lombarda, allo stesso tempo, si è mossa alla ricerca di una sorta di “società-veicolo” che investa nelle Popolari regionali in modo tale da limitarne i rischi di chiusura definitiva.
 

 
Concentrazione bancaria, ecco le maggiori criticità
 
Nel corso della conferenza sul credito cooperativo, Marco Vitale, tracciando un excursus dei vari sostenitori e oppositori dei titani bancari, non manca di annoverare le opinioni di personalità illustri e competenti e le ricerche su cui si basavano le teorie elaborate dagli esperti in materia. Infatti, le concause che condussero anni addietro alla crisi furono analizzate a fondo, giungendo alla conclusione che il rimedio migliore sarebbe stato quello di frenare il gigantismo degli istituti di credito. Numerosi i soggetti che ne sottolinearono i rischi: il direttore della Banca dei Regolamenti Internazionali, la Banca Centrale Svizzera, lo studioso William Sharpe e, nel 2001, il Working Paper Ferguson, che in un rapporto elaborò le macro-categorie all’interno delle quali si venivano a insinuare gli elementi critici che il fenomeno di concentrazione bancaria portava con sé. Possono essere individuati sei ambiti di riferimento:
Costi e ricavi. I conclamati obiettivi del processo di consolidamento di riduzione dei costi e incremento dei ricavi, pur essendo in parte realizzati, restavano molto lontani dalle attese.
La concentrazione e vantaggi della piccola dimensione. Le ricerche empiriche dimostrano che le sbandierate economie di scala sono, in gran parte, illusorie. Solo nelle banche minori si verificano economie di scala, attraverso un ampliamento od una focalizzazione della loro dimensione (economie di scala e di scopo). In questo processo, fusioni ed acquisizioni sono caratterizzate da un trasferimento di ricchezza dagli azionisti della banca acquirente a quelli della banca acquisita. Nello stesso tempo, la banca acquirente deve far fronte ad un percorso di complessità organizzativa che incide negativamente sui risultati (diseconomia di scala).
Il management del rischio. Le strategie di consolidamento hanno reso cruciale il problema del controllo del rischio, anche perché un effetto delle maggiori dimensioni è che aumenta il “moral hazard”. Il problema coinvolge un profondo cambiamento dei modi di esercitare la “governance”.
Il peso degli azionisti nei confronti degli altri “Stakeholder”. La compressione dei margini di profitto ha determinato una progressiva pressione degli azionisti sul management per il miglioramento di risultati di gestione, anche a scapito degli altri “Stakeholders”.
Il processo di concentrazione nei confronti del territorio. Studi sugli effetti delle concentrazioni bancarie sui prestiti alle piccole imprese erano allora disponibili solo per due Paesi (Italia e USA). Le conclusioni di questi studi empirici erano chiare: dopo la fusione o l’acquisizione, le banche riducono la percentuale di portafoglio investita in prestiti alle imprese di minore dimensione. Si tratta di una specie di allentamento del rapporto con il tessuto economico locale.
Cultura e integrazione.Tra i fattori che rendono difficile il processo di consolidamento, un ruolo importante è rivestito dalle differenze culturali non accompagnate, per lo più, da un’efficace strategia d’integrazione. Occorre una nuova cultura manageriale che sappia governare il processo.

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