Crisi idrica, in Sicilia si rischia il collasso - QdS

Crisi idrica, in Sicilia si rischia il collasso

Rosario Battiato

Crisi idrica, in Sicilia si rischia il collasso

mercoledì 11 Novembre 2015

Non solo Messina o Enna: le reti perdono quasi un litro su due e nelle grandi città la situazione è addirittura peggiore. Catania e Palermo superano il 50% delle perdite, mentre gli investimenti restano ancora al palo

PALERMO – La crisi idrica nel messinese rappresenta soltanto la porzione più esposta della grave emergenza infrastrutturale nel settore delle acque che riguarda l’intera Sicilia. Reti inadeguate e mancanza di investimenti aggrediscono al collo l’economia isolana perché incidono sullo spreco di acqua e anche sui costi in crescita delle bollette delle aziende che devono estrarla dai pozzi con danni ambientali abbastanza evidenti. Indirettamente pagano tutto i siciliani.
Gli ultimi dati in materia arrivano dall’ultimo report Ecosistema Urbano di Legambiente realizzato in collaborazione con l’Istituto di ricerche Ambiente Italia e aggiornato al 2014. La dispersione di rete, che rappresenta la differenza tra l’acqua immessa e l’acqua erogata in dati percentuali, ha visto in prima linea città come Catania e Palermo, rispettivamente al 61 e 54,9%, che hanno registrato alcuni dei dati peggiori a livello nazionale. Per le altre o non ci sono notizie, come Caltanissetta e Agrigento che non hanno comunicato alcun dato, oppure ci sono perdite comunque elevate (Messina ha raggiunto il 35%).
Dati in dettaglio che non migliorano di certo se vengono estesi a livello regionale. Secondo gli ultimi dati dell’Istat (aggiornati al 2012) la Sicilia ha una dispersione di rete di acqua potabile che raggiunge una media del 45,6%. Statistiche che si traducono in valori assordanti quando facciamo riferimento ai dati in valore assoluto: 714 milioni di metri cubi di acqua prelevata e solo 377 milioni  erogati dalle reti di distribuzione (dati Istat, censimento delle acque per uso civile). Il calcolo pro capite considera una immissione di 124 metri cubi a fronte di una erogazione di 80 per un rapporto tra acqua erogata e acqua immessa pari al 64,5%.
Risultati che si ripetono ormai da diversi anni, mentre la strada per invertire questa tendenza passa ovviamente dagli investimenti. Il governo nazionale, prendendo come riferimento il Piano di investimenti di pubblica utilità a lungo termine, vorrebbe impegnare le aziende idriche ad assicurare almeno 50 euro di investimenti per abitante/anno. La media nazionale, fino allo scorso anno, sfiorava 35 euro per abitante, ma in alcuni casi si abbassava fino a 28 visto che spesso le gestioni comunali investono anche meno di 10 euro. In Europa la musica è ben diversa con 80 euro pro capite in Germania, 90 in Francia, 100 in Gran Bretagna, 120 Danimarca. E anche le perdite sono decisamente inferiori.
Del resto a voler risparmiare sugli investimenti non si risolve poi molto. Anche a voler tappare i buchi, non c’è tanto da guadagnare. Un esempio del fallimento di queste politiche attendiste è riportato nel Piano di tutela delle acque della Regione siciliana, documento risalente a qualche anno fa, che riporta come sull’Etna c’erano soltanto 700 pozzi nel 1960, ma poi nel giro di trent’anni si è passati agli oltre 1100 “con un più forte incremento nel settore orientale e con un aumento delle profondità, in connessione con la diminuita produttività”. Si continua a scavare, insomma, considerando che in alcuni casi la profondità della perforazione può addirittura raddoppiare, e non è soltanto un pericolo per la stabilità del territorio, ma anche per i costi in bolletta degli estrattori.

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