Rendere meno appetibile il posto di lavoro pubblico

La politica clientelare degli ultimi cinquant’anni ha allargato a dismisura le maglie del pubblico impiego, perché per ogni assunzione vi era un ritorno clientelare sul piano del consenso e del voto.
Quando gli organici si riempirono, la Classe politica dei diversi decenni inventò le partecipate pubbliche nazionali, regionali e locali. Esse, avendo forme di società di diritto privato, non erano soggette a contingentamenti, né a restrizioni o all’osservanza degli articoli 54 e 97 della Costituzione.
Nel periodo indicato, i dipendenti di tali partecipate, nel loro complesso, sono arrivati a circa un milione, che sommati ai 3,2 milioni di dipendenti e dirigenti pubblici, hanno superato la soglia dei 4 milioni.
Di per sé, l’organico complessivo non è molto al di sopra di quello della media europea, ma la carenza è ben individuata nell’assenza di produttività, cioè il rapporto fra spesa e risultati, e nell’assenza dei due valori etici cui qualunque rapporto di lavoro, pubblico o privato, si dovrebbe ispirare: il merito e la responsabilità.

La dissennata opera del sindacato del pubblico impiego, che ha sempre livellato verso il basso i contratti nazionali, ha contribuito ad abbassare  la qualità dei servizi e, soprattutto, a non distinguere dirigenti e dipendenti bravi e onesti da quelli incapaci e disonesti.
Mancando la graduatoria, cui avrebbe posto rimedio la Legge Brunetta di qualche anno fa, e mantenendo tutti sullo stesso piano, si è ottenuto il triste risultato di avere 4,2 milioni di cittadini italiani che non rendono i servizi per cui costano.
Non essendoci la necessità di faticare, di sacrificarsi, di essere preparati, il posto pubblico è diventato una specie di sussidio, per cui negli uffici si vedono vagare persone che non fanno alcun lavoro o lo fanno poco e male, oltre alla piaga dei cosiddetti furbetti del cartellino.
Le indagini sempre più frequenti delle Procure della Repubblica, fondate su video e intercettazioni inequivocabili, hanno dimostrato senza dubbio la vastità del fenomeno, secondo cui si può andare nel posto pubblico di lavoro, timbrare e uscire immediatamente per farsi poi i propri affari.
 

I Giudici per le indagini preliminari hanno emesso provvedimenti cautelari nei confronti dei furbetti della Pa, il che costituisce un deterrente, ma per quelli incalliti non c’è deterrente che tenga.
Il risvolto negativo di questo comportamento è che i dipendenti infedeli non vengono licenziati e, in molti casi, quando il rapporto di lavoro viene interrotto, alcuni giudici li reintegrano.
Nel pubblico impiego, mancando la correlazione fra stipendio e risultato, tutto va (o meglio non va), perché nessuno è tenuto al rendiconto, in base al quale dovrebbe essere valutato, mentre lo stipendio arriva puntualmente sul conto bancario del dipendente o del dirigente, indipendentemente da ciò che fa, bene o male.
Ecco la prima ragione per cui il posto pubblico è così appetito. Ognuno sa che, una volta entrato nella Pubblica amministrazione, ne uscirà per la pensione o con i piedi in avanti, anche se ha reso poco o niente per motivare i propri compensi.

Quando vengono messi a concorso i posti pubblici, c’è la ressa di decine di migliaia di cittadini e, in qualche caso di centinaia di migliaia di essi, i quali sanno che una volta entrati non dovranno usare grandi capacità né fare sacrifici. Insomma, vogliono entrare in un posto dove vi sono soltanto vantaggi e nessun costo relativo.
Questo meccanismo è squilibrato rispetto a quello del posto privato, laddove invece vi è uno stretto rapporto fra compenso e rendimento. Uno squilibrio che andrebbe eliminato, perché non è possibile avere lavoratori di serie A (quelli pubblici) e lavoratori di serie B (quelli privati).
Come intervenire? Inserendo nel pubblico impiego precetti costituzionali e meccanismi organizzativi uguali a quelli del settore privato. Inoltre, ripartendo lo stipendio in una parte fissa e in una seconda variabile in base ai risultati prodotti.
È tempo di eliminare i privilegi e di mettere in competizione tutti i lavoratori italiani, pubblici e privati, in modo da formare un’osmosi fra i due settori e rendere appetibili i posti pubblici e quelli privati allo stesso modo, tagliando chi abusa della propria condizione.