Dissalazione contro la crisi idrica, Sicilia laboratorio tra luci e ombre - QdS

Dissalazione contro la crisi idrica, Sicilia laboratorio tra luci e ombre

Rosario Battiato

Dissalazione contro la crisi idrica, Sicilia laboratorio tra luci e ombre

martedì 20 Febbraio 2018

Presentato a Napoli il caso studio sul dissalatore di Lipari: serve una normativa adeguata. Studio svedese certifica: nel 2030 la scarsità d’acqua riguarderà un abitante su due

PALERMO – La penuria d’acqua isolana, che ha convinto il premier Gentiloni a concedere i poteri speciali a Musumeci, anche se circoscritti all’area metropolitana di Palermo, ha ragioni certamente profonde che comprendono la siccità degli ultimi tempi e soprattutto una grave carenza dal punto di vista infrastrutturale, con perdite di rete che superano la metà dell’acqua immessa e invasi ancora da completare. Una crisi locale, come ce ne sono altre nel mondo, che nel 2030 potrebbe diventare globale. Lo dicono i dati dello Stockholm international water institute (Siwi) che prevedono, per quella data, problemi relativi alla scarsità dell’acqua per il 47% della popolazione mondiale.
 
L’emergenza idrica siciliana come laboratorio per superare le crisi future che saranno mondiali. Un paradosso, per una superficie terrestre coperta per il 70% di acqua, che è stato evidenziato a Napoli, nei giorni scorsi, nel corso di un convegno dal titolo “L’emergenza idrica e la dissalazione dell’acqua marina: Impatti e normativa”. L’evento, organizzato da Idroambiente in occasione della convention dell’associazione Marevivo, ha visto anche l’esposizione del caso studio relativo all’impatto ambientale del dissalatore di Lipari.
 
Nel corso del convegno si è discusso delle alternative per invertire la tendenza. La proposta della dissalazione dell’acqua di mare, che rientra tra le prospettive ventilate dal governatore Musumeci anche in Sicilia, sebbene ci siano diversi impianti completati eppure non operativi, è centrale in questo quadro, anche se bisogna valutare le opzioni che siano più adeguate alla sostenibilità, quindi al rispetto degli ecosistemi naturali. In tal senso servono degli standard nazionali ed internazionali adeguati a questo scopo e prevedere anche analisi di impatto ambientale per verificarne il rispetto.
 
Durante i lavori è stato presentato il caso studio di Lipari. A relazionare sul punto è stato Francesco Aliberti, professore di Igiene generale e applicata del dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli. In particolare, si legge nella nota stampa dell’evento, si è approfondito l’impatto ambientale dello scarico del dissalatore di Lipari nel corpo idrico recettore tramite un’analisi chimico-fisica, chimica, biologica e microbiologica dei campioni prelevati allo scarico o nelle sue immediate vicinanze che hanno rilevato “un’alterazione dell’ecosistema”. Nelle aree dove le concentrazioni saline superano la soglia di tossicità si è evidenziata una “regressione della Posidonia marina, fondamentale per analizzare la stabilità dell’ambiente marino”.
 
Un impatto del genere deriva anche dall’assenza di un’adeguata normativa ambientale sia a livello globale, che europeo e nazionale. “Le normative sono carenti, mancano utili ed efficaci misure di controllo, contrasti e gestione – ha spiegato Aliberti – il decreto legislativo 152/2006 consente incrementi senza limiti della salinità marina, laddove è disposto che, per lo scarico di cloruri, questi ‘non valgono per le acque di mare’”. Un’altra criticità è che gli impianti di dissalazione “non sono stati inclusi nei progetti da sottoporre alla procedure di Valutazione di impatto ambientale (Via)” e “non esistono neanche delle linee guida per il monitoraggio degli impatti ambientali provocati dagli scarichi reflui, né viene regolamentato l’uso di sostanze chimiche di processo, soprattutto riguardo la loro tossicità”.
 
Servono soluzioni, perché la dissalazione può diventare determinante. La Sicilia è la regione che ne fa il maggiore utilizzo in Italia, ma si tratta ancora di una quota irrisoria rispetto al totale. Nell’Isola il prelievo delle acque marine, attraverso il processo di desalinizzazione, vale appena l’1% del totale del prelievo idrico regionale (dati Istat 2012). Un dato che comunque copre quasi il 90% del prelievo nazionale dal mare.

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