Catania, Comune in default, sanzioni ai responsabili - QdS

Catania, Comune in default, sanzioni ai responsabili

Carmelo Barreca

Catania, Comune in default, sanzioni ai responsabili

mercoledì 14 Novembre 2018

LE FINANZE DEGLI ENTI LOCALI (2a puntata) - Il dissesto ha un alto prezzo da pagare per dipendenti e cittadini, ma anche per gli amministratori che hanno trascinato l’Ente nel baratro

Dopo avere esaminato, nell’articolo pubblicato ieri, le conseguenze del default per le imprese creditrici, vediamo adesso quali sono gli altri effetti inerenti la prosecuzione dell’attività dell’ente dissestato.
 
b) PER I DIPENDENTI
 
Una prima immediata conseguenza colpisce innanzitutto i dipendenti del Comune. Le esigenze di risanamento dell’ente impongono infatti ex lege di porre in mobilità il personale in esubero. L’art. 259.6 del T.U. infatti impone purtroppo quanto segue: “6. L’ente locale, ugualmente ai fini della riduzione delle spese, ridetermina la dotazione organica dichiarando eccedente il personale comunque in servizio in sovrannumero rispetto ai rapporti medi dipendenti-popolazione di cui all’articolo 263, comma 2, fermo restando l’obbligo di accertare le compatibilità di bilancio. La spesa per il personale a tempo determinato deve altresì essere ridotta a non oltre il 50 per cento della spesa media sostenuta a tale titolo per l’ultimo triennio antecedente l’anno cui l’ipotesi si riferisce”.
Il richiamato art. 263 comma 2 prevede a sua volta che “2. Con decreto a cadenza triennale il Ministro dell’interno individua con proprio decreto la media nazionale per classe demografica della consistenza delle dotazioni organiche per comuni e province ed i rapporti medi dipendenti-popolazione per classe demografica, validi per gli enti in condizione di dissesto ai fini di cui all’articolo 259, comma 6. In ogni caso agli enti spetta un numero di dipendenti non inferiore a quello spettante agli enti di maggiore dimensione della fascia demografica precedente”.
 
L’ultimo di tali decreti è quello del 10 Aprile 2017 (pubblicato sulla (GU n.94 del 22-4-2017), con cui il Ministero dell’Interno ha individuato i seguenti rapporti medi dipendenti/popolazione per il triennio 2017-2019 : fascia 250.000/499.000 abitanti = rapporto 1/89.
 
Ciò significa che, per esempio, il Comune di Catania non potrà mantenere in servizio più di un dipendente ogni 89 abitanti. Utilizzando sempre un dato medio estratto da internet (stima anno 2017) di complessivi 313.396 abitanti nel comune di Catania, il numero di dipendenti da mantenere dovrebbe quindi essere (s.e.&o.) all’incirca di 3.521 unità.
 
Il personale in esubero rispetto a tale numero ricade nell’art. 260 del T.U. , ove si prevede che “1. I dipendenti dichiarati in eccedenza ai sensi dell’articolo 259, comma 6, sono collocati in disponibilità. Ad essi si applicano le vigenti disposizioni, così come integrate dai contratti collettivi di lavoro, in tema di eccedenza di personale e di mobilità collettiva o individuale. 2. Il Ministero dell’interno assegna all’ente locale per il personale posto in disponibilità un contributo pari alla spesa relativa al trattamento economico con decorrenza dalla data della deliberazione e per tutta la durata della disponibilità. Analogo contributo, per la durata del rapporto di lavoro, è corrisposto all’ente locale presso il quale il personale predetto assume servizio”.
 
Per impedire tale effetto nefasto si può ricorrere ad un finanziamento regionale. Per esempio è stato riportato sui mass media locali che l’assessorato regionale alle autonomie locali ha stanziato lo scorso 3 Settembre 2018 un contributo di 3,476 milioni di euro in favore dei comuni siciliani in dissesto, al fine di contemperare proprio gli effetti dell’esubero del personale (riferiva l’articolo che grazia a questo contributo 37 dipendenti in esubero del Comune di Ispica in dissesto hanno potuto proseguire a lavorare senza esser collocati in mobilità). Sarebbe ovviamente doveroso, ove necessario, un analogo intervento in favore del Comune di Catania.
 
 
c) PER TUTTI I CITTADINI
 
La conseguenze del dissesto per i cittadini sono di due tipi:
 
– aumento di tutti i tributi locali all’aliquota massima e necessità di integrale copertura tramite Tari dei servizi di nettezza urbana;
 
– riduzione di alcuni servizi comunali
 
Per quanto riguarda i tributi comunali, l’art. 251 comma 1 impone di “deliberare per le imposte e tasse locali di spettanza dell’ente dissestato, diverse dalla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, le aliquote e le tariffe di base nella misura massima consentita, nonchè i limiti reddituali, agli effetti dell’applicazione dell’imposta comunale per l’esercizio di imprese, arti e professioni, che determinano gli importi massimi del tributo dovuto. 2. La delibera non è revocabile ed ha efficacia per cinque anni, che decorrono da quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”.
Ancor più delicato è l’aspetto relativo alla copertura dei costi del servizi di igiene urbana, posto che nel TU si prevede sempre all’art. 251 che “ai fini della tassa smaltimento rifiuti solidi urbani, gli enti che hanno dichiarato il dissesto devono applicare misure tariffarie che assicurino complessivamente la copertura integrale dei costi di gestione del servizio e, per i servizi produttivi ed i canoni patrimoniali, devono applicare le tariffe nella misura massima consentita dalle disposizioni vigenti”.
 
Quindi sembrerebbe che per la Tari non vi sia alcun limite massimo: i costi effettivi vanno spalmati su tutti i cittadini, adeguando ove occorra le misure tariffarie. Il reale problema della Tari in realtà non è quello della misura tariffaria, ma bensì quello dell’esigibilità della tariffa, essendovi per quanto è dato sapere sacche rilevantissime di evasione. Sarebbe quindi veramente opportuno inglobare la maggior parte dei tributi comunali (Tari in particolare) in pagamenti che i cittadini non possono evitare, come ad esempio quelli del Servizio elettrico nazionale.
 
Per quanto riguarda la riduzione dei servizi comunali e quelli resi dalle società partecipate, l’art. 259 prevede un’ipotesi che poi sostanzialmente è una regola. Si prevede infatti all’art. 259.1 ter che “1-ter. Nel caso in cui il riequilibrio del bilancio sia significativamente condizionato dall’esito delle misure di riduzione di almeno il 20 per cento dei costi dei servizi, nonché dalla razionalizzazione di tutti gli organismi e società partecipati, laddove presenti, i cui costi incidono sul bilancio dell’ente, l’ente può raggiungere l’equilibrio, in deroga alle norme vigenti, entro l’esercizio in cui si completano la riorganizzazione dei servizi comunali e la razionalizzazione di tutti gli organismi partecipati, e comunque entro cinque anni, compreso quello in cui è stato deliberato il dissesto. Fino al raggiungimento dell’equilibrio e per i cinque esercizi successivi, l’organo di revisione economico-finanziaria dell’ente trasmette al Ministero dell’interno, entro 30 giorni dalla scadenza di ciascun esercizio, una relazione sull’efficacia delle misure adottate e sugli obiettivi raggiunti nell’esercizio”. Orbene, pare evidente che, a meno di riuscire a trovare delle nuove economie e sinergie (ovviamente sempre possibili) la riduzione (almeno) del 20% del costo dei servizi equivale ad una riduzione del 20% dei servizi medesimi.
 
Valuterà il Comune secondo quale priorità procedere a questi tagli, al cui riguardo è nota la contrapposizione tra le seguenti possibilità:
– tagli lineari orizzontali (riduco proporzionalmente tutti i servizi del 20 %);
– tagli selettivi verticali (riduco selettivamente in misura maggiore, ovvero sopprimo, servizi ritenuti meno indispensabili di altri)
L’art. 259.2 del resto, in maniera molto generica, precisa che “2. L’ipotesi di bilancio realizza il riequilibrio mediante l’attivazione di entrate proprie e la riduzione delle spese correnti”.
 
La legge pone tuttavia delle regole e delle priorità, e quindi in linea di principio esclude la generica possibilità di ricorrere a tagli “orizzontali”. L’art. 259 comma 5 del T.U. prevede infatti a tal fine che “5. Per la riduzione delle spese correnti l’ente locale riorganizza con criteri di efficienza tutti i servizi, rivedendo le dotazioni finanziarie ed eliminando, o quanto meno riducendo ogni previsione di spesa che non abbia per fine l’esercizio di servizi pubblici indispensabili. L’ente locale emana i provvedimenti necessari per il risanamento economico-finanziario degli enti od organismi dipendenti, nonchè delle aziende speciali, nel rispetto della normativa specifica in materia”.
 
Vediamo quindi quali sono i servizi pubblici indispensabili (da mantenere) e quali sono invece i servizi pubblici non indispensabili ( da ridurre e/o sopprimere).
 
I servizi pubblici locali indispensabili (che sono poi quelli richiamati dall’art. 159 del TU 267/2000 ai fini della sottrazione delle somme degli enti pubblici all’esecuzione forzata), dovrebbero essere solo quelli contenuti nell’elencazione del DM 28.5.1993, ossia i seguenti: servizi connessi agli organi istituzionali; servizi di amministrazione generale, compreso il servizio elettorale; servizi connessi all’ufficio tecnico comunale; servizi di anagrafe e di stato civile; servizio statistico; servizi connessi con la giustizia; servizi di polizia locale e di polizia amministrativa; servizi di protezione civile, di pronto intervento e di tutela della sicurezza pubblica; servizi di istruzione primaria e secondaria; servizi necroscopici e cimiteriali; servizi connessi alla distribuzione dell’acqua potabile; servizi di fognatura e di depurazione; servizi di nettezza urbana; servizi di viabilità’ e di illuminazione pubblica.
Come ben si vede, esulano da novero dei servizi indispensabili alcuni importanti servizi locali comunali, che rischiano quindi di venir soppressi o fortemente ridotti (ad esempio: asili nido comunali, mense scolastiche, scuolabus, ludoteche, centri estivi, servizi contro la dispersione scolastica, servizi di integrazione e sostegno ai disabili, centri socio-educativi diurni, orti comunali, ovvero servizi per l’immigrazione come i centri accoglienza, di consulenza giuridica, di orientamento al lavoro e alla formazione, corsi di lingua, e così via). Nell’ambito di questi servizi accessori da sopprimere o ridurre, il Comune potrà valutare se applicare come detto tagli lineari (riducendo percentualmente orizzontalmente tali servizi) ovvero tagli selettivi (assegnando alcune priorità).
 
D’altra parte, delle due l’una: o il comune trova il modo recuperare anche coattivamente i tributi locali, e rende equilibrato l’attivo rispetto alle spese correnti, oppure deve necessariamente ridurre le spese correnti, altrimenti il dissesto si riproporrà ciclicamente e senza fine.
 
Non pare potersi dubitare comunque che i provvedimenti da adottare in materia di personale, tributi locali e riduzione di servizi alla cittadinanza sono ritenuti così “pesanti” ed “impopolari” che gli enti arrivano il più delle volte alla dichiarazione di dissesto solo quando, a seguito delle azioni esecutive dei creditori che pignorano le somme della cassa comunale, non è più possibile pagare neppure gli stipendi al personale dipendente.
 
Nel caso del Comune di Catania la bocciatura da parte della Corte dei Conti del piano di riequilibrio ha reso praticamente cogente ed inevitabile il dissesto.
 
d) SANZIONI
 
Anche se trattasi di una magra e scarna consolazione, la legge prevede alcune sanzioni per coloro che hanno provocato o contribuito a provocare il dissesto dell’ente.
L’art. 248 comma 5 del T.U. prevede infatti che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20” (ossia dell’azione di responsabilità per danno erariale eventualmente azionata dalla procura presso la Corte dei Conti) “gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati. I sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili ai sensi del periodo precedente, inoltre, non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonchè di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale ne’ alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Ai medesimi soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione”.
 
Quindi sono previste sanzioni sia pecuniarie che personali.
 
Queste sono sanzioni accessorie, che esulano dall’eventuale ipotetico accertamento di singoli specifici fatti illeciti produttivi di danno erariale commessi con dolo o colpa grave, nel qual caso ove si ritenga fondata l’azione della procura contabile e quindi a seguito di condanna da parte della Corte dei Conti il funzionario condannato risponde ovviamente del danno erariale arrecato con tutto il suo patrimonio. Altre sanzioni simili sono previste dal comma 5-bis per il collegio dei revisori dei conti.
 
Domani la sintesi per punti sulle conseguenze della procedura di dissesto

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