Giuseppe Ricci: "Bioraffineria di Gela già operativa nei primi mesi del 2019" - QdS

Giuseppe Ricci: “Bioraffineria di Gela già operativa nei primi mesi del 2019”

Paola Giordano

Giuseppe Ricci: “Bioraffineria di Gela già operativa nei primi mesi del 2019”

martedì 27 Novembre 2018

Forum con Giuseppe Ricci, Chief refining e Marketing officer di Eni

Il Protocollo d’intesa siglato tra Eni, le organizzazioni sindacali, le Istituzioni e Confindustria nel 2014 prevedeva la riconversione della raffineria di Gela. Da allora sono passati quattro anni: quando entrerà in funzione il nuovo impianto green?
“La bioraffineria partirà agli inizi del 2019, contiamo entro la fine dell’anno di arrivare al completamento meccanico per poi partire con l’avviamento tra gennaio e febbraio del prossimo anno. Questo sarà il coronamento di tutti gli sforzi di riconversione che, partiti a valle della firma dell’accordo del novembre 2014, hanno seguito tutto l’iter autorizzativo e hanno portato alla riconversione dell’esistente e alla costruzione del nuovo impianto di steam reforming per la produzione di idrogeno. Quest’ultimo è stato autorizzato definitivamente dal ministero ad agosto 2017 e verrà completato il mese prossimo. In un anno e mezzo, abbiamo portato a casa costruzione e completamento dell’impianto”.
 
 
Come ci siete riusciti?
“Abbiamo adottato gli stessi criteri di Venezia di massimizzazione del recupero dell’esistente e dell’integrazione del nuovo. Venezia, che è operativa da maggio 2014, ha subito lo stesso iter di Gela: un paio d’anni prima, con la crisi della raffinazione, abbiamo messo in cassa integrazione le persone, fermato la raffineria per un periodo e ci siamo inventati la riconversione. La tecnologia l’abbiamo sviluppata noi insieme a un’azienda americana, la Honeywell Uop, che ci aiuta a commercializzarla all’estero. Oggi se ne stanno realizzando in tutto il mondo. Abbiamo fatto accordi anche con altre società internazionali, per esempio in Indonesia, dove ci sono le coltivazioni degli oli vegetali, per sviluppare queste tecnologie. Nel mondo una tecnologia simile, non uguale, l’aveva sviluppata la Neste Oil in Finlandia, che però si è limitata a svilupparla costruendo un impianto ex novo. L’idea che ha aggiunto Eni è stata quella di adottare la riconversione, dando continuità alla presenza industriale sul territorio. Con la crisi economica che c’è stata dal 2008 al 2014, in Europa hanno chiuso circa 25 raffinerie, le quali sono state trasformate in depositi. Vuol dire che una raffineria con cinquecento dipendenti può tranquillamente essere gestita con venti unità, una perdita incommensurabile di posti di lavoro che, in termini di indotto, si quadruplica. Il concetto di riconversione è al centro di tutta la strategia per dare continuità all’attività industriale. Perché dare continuità significa, per l’azienda, sfruttare le competenze e le infrastrutture già presenti e mettersi in discussione. È un’avventura interessante, tutta da scoprire”.
 
Cosa produrranno questi nuovi impianti?
“Il cosiddetto greendiesel, un prodotto già commercializzato. Il nostro Enidiesel+, che contiene il 15% di biocarburante, alla pompa costa circa 10 centesimi in più rispetto al tradizionale diesel, una distanza significativa, il 7-8% del costo del prodotto. Questo olio bio, che concorre alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, paga le accise come gli altri carburanti. In Italia non è agevolato, perché le accise si pagano sulla base della tipologia di carburante, benzina e gasolio. Il nostro olio bio rientra nella fattispecie gasolio e paga come gasolio. Se dovessero aumentare le accise, come stanno facendo in Francia, si pagherebbe anche il nostro prodotto di più. Noi siamo molto orgogliosi di questo processo, perché non è solo tecnologico, non è solo un successo dal punto di vista della ricerca, ma è un successo per il modello che è stato applicato. È un’innovazione tecnologica, sociologica e ambientale”.
 
 
Quali sono le materie prime utilizzate?
“Gela è 100 per cento flessibile per l’uso di qualsiasi materia prima vegetale o di scarto che c’è oggi e che si svilupperà domani. La materia prima di scarto che si produce oggi in Sicilia non basta. Non è una questione di produzione, ma una questione di raccolta. L’esempio tipico è quello dell’olio da frittura: abbiamo captato la possibilità di usarli alla bioraffineria di Venezia, agli inizi del 2017, abbiamo fatto un accordo con il Consorzio nazionale, il Conoe, per cercare di inserirci nella filiera, non di sostituirci a essa, ma di esserle complementare. In Italia si raccolgono 60-65 mila tonnellate all’anno di quest’olio, ma la produzione globale è vicina alle 300 mila, quasi la capacità di Venezia. Raccogliere è un problema culturale, perché in Italia è obbligatorio da parte degli esercizi commerciali, ristoranti e mense conferire l’olio di frittura esausto al Conoe, poi delle piccole aziende, i cosiddetti raccoglitori, lo prelevano ‘a domicilio’ e una ventina di società eseguono la trasformazione del rifiuto in un “prodotto raffinato”, che noi compriamo. Significa che sono società autorizzate a trattare questo tipo di rifiuto e fanno semplicemente una filtrazione grossolana: tolgono l’acqua presente, se c’è, ed eventuali residui di cibo. È però importante dal punto di vista normativo, perché così il prodotto viene classificato materia prima secondaria e non più rifiuto. Noi lo compriamo al prezzo di mercato e alimentiamo la bioraffineria, dove viene idrogenato, isomerizzato e diventa questo splendido prodotto che è il greendiesel. Esso, oltre ad avere caratteristiche migliori come gasolio, nel senso che fa consumare di meno e tiene pulito il motore, perché c’è idrogeno dentro ed è molto energetico, abbatte anche il particolato fine, quindi migliora la qualità dell’aria. Il nostro intento è valorizzare questo prodotto anche attraverso accordi con soggetti pubblici, come abbiamo fatto a Torino gli autobus di Gtt, a Venezia con i vaporetti e presto con i mezzi della raccolta rifiuti di Hera a Modena”.
 
Dunque, una connessione importante con i territori in cui operate…
“Sì, perché l’impegno di Eni non si limita alle attività industriali. Il Protocollo siglato per Gela, per esempio, prevede un contributo economico di 32 milioni di euro per la realizzazione di interventi, a titolo di opere di compensazione, per lo sviluppo sostenibile nel settore delle energie rinnovabili e di riqualificazione urbana e culturale della città di Gela. Inoltre, abbiamo anche realizzato numerosi progetti nel campo sociale: il programma di alternanza scuola-lavoro, che alla fine dell’anno scolastico in corso avrà coinvolto dal 2016 circa 1.100 studenti di sei Istituti superiori di Gela, o l’assegnazione di borse di studio a studenti universitari residenti a Gela, secondo criteri di merito e di reddito. Abbiamo anche confermato il progetto di prevenzione delle malattie cardiovascolari, in collaborazione con l’Azienda ospedaliera Vittorio Emanuele di Gela, attivo dal 2008, che è a beneficio di circa 1.000 dipendenti delle società Eni che svolgono la loro attività nel sito di Gela, nonché il coinvolgimento di ex dipendenti. Abbiamo poi il Banco alimentare, attivo dal settembre 2018 grazie a un accordo tra il Comune di Gela, la Fondazione Banco alimentare, il Banco alimentare della Sicilia Onlus ed Eni, tramite le sue controllate EniMed, Raffineria di Gela e Syndial. Il progetto prevede la creazione di una sede decentrata del Banco alimentare che riesca a ottimizzare e incrementare la raccolta delle eccedenze di cibo favorendone, poi, l’immediata distribuzione tra i bisognosi e le fasce vulnerabili della popolazione gelese”.
 
La scorsa settimana la Procura di Gela ha effettuato il sequestro di una vasta area della raffineria destinata a discarica. Vi risulta che negli anni siano state commesse leggerezze nello smaltimento dei rifiuti del petrolchimico?
“La Procura ha sequestrato un’area recintata da vent’anni, dove insistono delle vecchie discariche che sono state esercite negli anni Ottanta e Novanta del secolo appena trascorso. Le più recenti sono state messe fuori servizio nel 2001. Sono oggetto di tombamento o bonifica, secondo l’iter autorizzativo che si sta ancora portando avanti. Quelle discariche hanno una doppia recinzione: quella della raffineria, dove non entra nessuno se non è titolato a farlo, un’altra, sorvegliata, all’interno dell’impianto. Poi è iniziato il progetto di bonifica di una di queste vasche, la vasca A zona 2, oggetto di procedimento giudiziario conclusosi con l’assoluzione lo scorso anno, che ormai è quasi completamente bonificata. È stato un intervento di risanamento ambientale molto importante, perché era una specie di campo di calcio dove negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta sono confluiti tutti i residui oggi interamente rimossi e recuperati utilizzando nuove tecnologie. Quell’area è sempre stata soggetta a tombamenti e bonifiche, non esercizio. Questo è fondamentale. Hanno fatto vedere discariche fuori dalla raffineria, ma in nessuna delle nostre sono stati conferiti rifiuti. La Procura ha fatto un atto dovuto. Siamo sereni perché non abbiamo commesso alcuna leggerezza, bensì abbiamo sempre scrupolosamente rispettato tutte le norme e leggi, come attestato dai numerosissimi controlli effettuati negli anni da tutti gli organi di controllo”.
 
Quali sono i sistemi che garantiscono il contenimento delle aree inquinate?
“Quelle discariche ad abbundantiam hanno una barriera fisica e una barriera idraulica per la falda, che sono state completate nel 2006 e che seguono tutto il perimetro mare della raffineria. Attraverso la realizzazione dell’impianto di Trattamento acqua di falda, il Taf prende l’acqua di falda inquinata, perché il sito all’interno è inquinato, e la depura con vari stadi fino a quella che è, in sostanza, una depurazione totale. L’impianto Taf di Gela, avviato nel 2006, è stato il primo al mondo a fare una depurazione così spinta fino alla produzione di vapore acqueo. Adesso ne è stato fatto un altro a Priolo e ce ne sono altri, però dieci anni fa era il primo al mondo. Attenzione a dire che l’attività della raffineria può aver avuto degli effetti all’esterno. Che il sottosuolo della raffineria sia inquinato lo dice la legge: a seguito del decreto ministeriale 471/1999 che ha istituito i Siti di interesse nazionale, sono stati definiti inquinati tutti i cento siti industriali italiani. Da lì è incominciato il processo di bonifica, messa in sicurezza, la costruzione delle barriere. Tutte le analisi fatte sul mare, sia sui sedimenti sia sulla fauna, da tutti gli enti, hanno sempre evidenziato un’assenza di inquinamento nei sedimenti e uno stato di salute della fauna normale. Stessa cosa è stata fatta sui terreni e sulle coltivazioni fuori. Fuori è pulito, dentro lo sanno tutti che è sporco, è normale che sia così. Questa distinzione è fondamentale”.
 
 
Quale livello di sicurezza garantiscono le barriere?
“La tenuta delle barriere, oggetto di discussioni per anni, è stata dimostrata dagli stessi enti di controllo e inquirenti. Le barriere sono dei muri di calcestruzzo interrato, profonde 20 metri, che intercettano la falda, coprono quasi tutto il perimetro della raffineria, tranne le zone dove c’è il pontile. In aggiunta, su tutto il perimetro compreso il pontile ci sono 67 pozzi di emungimento che prendono fino a 300 m3/h di acqua e la fanno confluire all’interno dell’impianto Taf. Questi creano una barriera idraulica con tendenza a entrare nel cuneo salino, quindi è l’acqua di mare che entra e non l’acqua della falda che esce, e vengono regolati in funzione dell’altezza della falda, della piovosità, della siccità. Vengono monitorati sia con un controllo locale, sia con uno remoto a Milano, dove c’è una sala controllo centralizzata che gestisce tutti i Taf d’Italia e ottimizza la gestione. Tale studio idrogeologico e il modello di gestione della falda è stato sviluppato e seguito dai migliori professori della facoltà di geologia della Sapienza di Roma i quali hanno anche certificato che funziona e hanno convinto gli inquirenti”.

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