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Nulle le dimissioni rassegnate in condizioni di stress

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Nulle le dimissioni rassegnate in condizioni di stress

martedì 27 Novembre 2018

Lo stato di turbamento psichico è sufficiente ad impedire il compimento di un atto consapevole: lo ha confermato la Corte di Cassazione con sentenza 30126/2018 depositata lo scorso 21 novembre

ROMA – Può accadere che un lavoratore si dimetta in un momento in cui stia attraversando una condizione di turbamento psicologico o si trovi stressato o insoddisfatto del proprio contesto ambientale. In un caso del genere le dimissioni sono nulle: lo conferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 30126/18, depositata il 21.11.2018.
 
Il caso di riferimento è quello del geometra Dino Padovani, ex dipendente del comune di Montechiarugolo (Pr), che agisce in giudizio per ottenere l’accertamento dell’efficacia della revoca delle proprie dimissioni. Il primo e il secondo grado di giudizio sono caratterizzati da pronunce non favorevoli per l’interessato, il quale si vede respingere la domanda. In particolare la Corte di Appello esclude, secondo i propri criteri, che le dimissioni possano considerarsi il risultato di un momento di inconsapevolezza dell’agire definendole piuttosto “l’epilogo consapevole di una condizione di malessere lavorativo”.
 
Idea completamente diversa è espressa invece dalla Corte di Cassazione. A seguito dell’impugnazione della sentenza da parte del ricorrente, infatti, la Suprema Corte ha ribaltato il verdetto, e rinviato alla Corte d’Appello in diversa composizione e coglie lo spunto dato dal contenzioso per scolpire alcuni principi.
 
L’elemento innovativo, infatti, introdotto da questa importante sentenza è l’idea che uno stato di turbamento psichico sia sufficiente ad impedire il compimento di un atto consapevole. Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere, causa di annullamento del negozio giuridico ex art. 428 c.c., non occorrerebbe dunque, secondo la sentenza 30126, la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive. Piuttosto, si rivelerebbe sufficiente “un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere”.
 
L’incapacità naturale consiste infatti, secondo la Corte, in ogni stato psicologico, pur se improvviso, transitorio e non dovuto a un vero e proprio processo patologico, che “abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono”. La prova di tale incapacità poi, “può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità”.
 
In presenza di una patologia invece, accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, per il periodo intermedio si verifica l’inversione dell’onere della prova: deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo.
 
Tale indagine, avendo ad oggetto beni giuridici primari, deve essere rigorosa: occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto. In particolare, è consolidato orientamento della Corte che il diritto a riprendere il lavoro nasca con la sentenza di annullamento (i cui effetti retroagiscono al momento della relativa domanda), ripristinando così il diritto alla retribuzione.
 
La disciplina che regola le dimissioni nel lavoro pubblico, tuttavia, non coincide del tutto con quella prevista per il lavoro privato: la Corte ritiene infatti che nel rapporto di lavoro alle dipendenze della Pa, al dipendente dimissionario si applichi “l’istituto della riammissione in servizio, che non dà luogo alla reviviscenza del precedente rapporto di lavoro, ma alla costituzione di un nuovo rapporto”. In ogni caso rimane valido e va applicato il principio generale della piena genuinità e dell’autenticità delle dimissioni. Del resto il rispetto del suddetto principio assume valore centrale proprio nel lavoro pubblico perché l’eventuale annullamento delle dimissioni non comporta l’automatico rientro del dipendente nel posto precedentemente occupato.
 
Insomma, una sentenza secondo la quale la decisione unilaterale del lavoratore di rinunciare al rapporto, dal momento che il diritto al lavoro riceve una protezione di rango anche costituzionale (artt. 4 e 36), impone di valutare con particolare rigore tutti gli elementi – sia quelli inerenti al contesto lavorativo che quelli intrinseci alla sfera emotiva e personale del dipendente – che possono incidere sulla piena capacità di discernimento e comprensione delle conseguenze che derivano dalle dimissioni.

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