Economista d’impresa
(scritto il 3 agosto 1997)
Vi è un passo di: “Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille” di Giuseppe Cesare Abba che mi torna, spesso, alla memoria. È il 22 maggio 1860. La stupefacente vittoria di Calatafimi è alle spalle. Le squadre dei garibaldesi sono attestate, in ansiosa attesa di puntare su Palermo. Quella alla quale appartiene il ventiduenne Giuseppe Cesare Abba è attestata a Parco, un piccolo paese in vista di Monreale e Palermo. Abba si intrattiene con un giovane frate, Frate Carmelo, di ventisette anni, ammirato ed affascinato dalla spedizione dei garibaldesi, ma, al tempo stesso, diffidente di essa. Annota Abba: “L’anima di padre Carmelo strideva. Vorrebbe essere uno dei nostri, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo”. E così si sviluppa il breve, illuminante dialogo:
“Venite con noi, vi vorranno tutti bene”.
“Non posso”.
“Forse perché siete frate? Ce ne abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue”.
“Verrei, se sapeste che farete qualcosa di grande davvero; ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia”.
“Certo, per farne un grande e solo popolo”.
“Un solo territorio! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice”.
“Felice! Il popolo avrà libertà e scuole”.
“E nient’altro!” interruppe il frate: “perché la libertà non è pane e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno per voi Piemontesi; per noi qui no”.
“Dunque che ci vorrebbe per voi?”
“Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città in ogni villa”.
“Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!”
“Anche contro di noi: anzi prima che contro ogni altro! Allora verrei. Così è troppo poco”.
Oggi, dopo 137 anni, possiamo dirlo: l’Unità d’Italia è stata troppo poco. Frate Carmelo aveva ragione. È da lì che dobbiamo ricominciare, non dai nuovi disegni costituzionali di questa o quella Bicamerale. Dobbiamo ripartire dai fondamentali di una democrazia reale, che si basa sulla eterna lotta degli oppressi contro gli oppressori, affinché tutti possano avere pane e lavoro, perché si sia un solo popolo e non solamente un territorio unificato.
“Voi avete contribuito a costituire l’Unità d’Italia… Ma, ditemi: vi accorgete di essere oggi d’ostacolo alla prosperità del nostro Paese? Eppure lo siete, e ve lo provo in poche parole.
“Ciocchè voi chiamate esercito per la difesa della patria serve particolarmente a difendervi dalla nazione sdegnata contro di voi e che voi strozzate e ne aveste la prova in Sicilia nell’Italia centrale per il macinato ed a Roma per il suffragio nazionale, in cui l’esercito giuocò la parte principale.
“La benemerita, le pubbliche sicurezze, la finanza, i prefetti, e tutto il codazzo che accompagna coteste istituzioni, un esercito d’impiegati d’ogni specie, un altro esercito di cavalieri senza cavallo e finalmente i pensionati che si arrampicano all’erario pubblico come piattole. Dimodocchè a vantaggio della sola vostra famiglia immiserite e tenete nella sventura un’intiera nazione di 26 milioni corrompendone una metà che associate alle vostre violenze ed ai vostri profitti per tener serva l’altra”.
Ma questi suggerimenti non sono occasionali. Nascono da una precisa concezione democratica, anche coerentemente formulata in un frammento di quegli anni, intitolato: Il Governo.