Una talpa dentro la Guardia di Finanza - QdS

Una talpa dentro la Guardia di Finanza

Francesca Pecorino

Una talpa dentro la Guardia di Finanza

martedì 08 Maggio 2012

La Corte dei Conti, con la sentenza n. 1247 del 18 aprile 2012, ha condannato un maresciallo al risarcimento del danno all’immagine. Allo Stato 80 mila € più interessi, perché ha fornito “notizie riservate” ad un imprenditore mafioso

PALERMO – In materia di danno erariale ha particolare rilevanza il danno all’immagine che la Pubblica amministrazione subisce a causa della condotta lesiva tenuta dai propri dipendenti. Ciò, è particolarmente importante per via del rapporto di immedesimazione organica che lega appunto l’ente pubblico ai propri dipendenti.
A questo proposito, la Corte dei Conti ha pronunciato la sentenza n. 1247 del 18 aprile 2012, condannando  un maresciallo della Guardia di Finanza al risarcimento del danno all’immagine nei confronti di quest’ultima forza dell’ordine.
Il giudizio è stato promosso dalla Procura regionale, che ha chiesto la condanna al pagamento, a favore dello Stato, della somma di € 80.000,00 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali, nonché spese del procedimento.
La superiore richiesta trovava la sua origine nella sentenza n. 42690/2010, emessa dalla Corte di Cassazione, che ha condannato il maresciallo per i reati di rivelazione di segreti di ufficio aggravato (art. 326 c.p.), di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615 ter c.p.) e di favoreggiamento personale aggravato (art. 378 c.p.). In quest’ultimo caso, riqualificando l’originaria imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. A seguito della detta condanna, lo stesso veniva arrestato e quindi destituito.
La condotta criminosa (in concorso con un militare dei carabinieri e altri correi) era consistita “nel fornire notizie riservate, acquisite in ragione del suo ufficio” ad un imprenditore mafioso, introducendosi abusivamente nel sistema informatico della Procura, “per aiutarlo ad eludere le indagini per associazione mafiosa, truffa aggravata e altro”, strumentalizzando “le sue funzioni, con grave lesione dell’immagine della Pubblica amministrazione di appartenenza”. Tutti fatti acclarati dalle risultanze del procedimento penale su si è formato il giudicato, che non possono certo essere oggetto di riesame da parte della Corte dei Conti né quindi di contestazione alcuna.
La quantificazione del danno dovuto allo Stato è avvenuta tenendo conto di diversi parametri: “La gravità della fattispecie penale contestata (rivelazione di segreti d’ufficio), le concrete modalità di realizzazione della condotta (ripetuta nel tempo e volta a strumentalizzare il rapporto di fiducia con gli investigatori e i magistrati con i quali lavorava), la delicatezza della funzione rivestita (collaboratore addetto alla D.D.A. di Palermo), la diffusione mediatica della notitia crimins sia la momento dell’arresto che della condanna”.
Il procuratore ha, altresì, richiamato la sentenza della Cassazione n. 3227/2006 quale parametro per le fattispecie più gravi di infedeltà alla Pa con conseguente lesione dell’immagine, il cui contenuto sarà oggetto di approfondimento.
Dal canto suo, il maresciallo convenuto ha argomentato le sue difese, facendo riferimento a tutta una serie di circostanze che la Corte ha considerato irrilevanti quali: il coinvolgimento di altri soggetti, la scarsa rilevanza della gravita della propria condotta nell’ambito dell’inchiesta “Talpe in Procura”, l’irrilevanza del richiamo alla sentenza del 2006, le passate valutazioni positive sul suo operato da parte dei magistrati della procura di Palermo, le tante attività professionali di successo, il non aver percepito alcun profitto economico dalla condotta criminosa, l’avvenuta rimozione dalla Guardia di Finanza quale forma di risarcimento per il danno all’immagine e l’episodicità della condotta tenuta.
La rilevanza della condotta lesiva ai fini del risarcimento del predetto danno scaturisce da un diritto dell’ente all’integrità della propria immagine “sia sotto il profilo della sua considerazione presso i consociati in genere o presso quei settori con i quali l’ente interagisce, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che la sminuita considerazione cagiona nell’agire delle persone fisiche dei suoi organi”, minando la fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni, attuando una condotta che persegue i propri fini e non quelli della collettività.
In particolare, dalla prassi giurisprudenziale si evince che il danno all’immagine è ricollegabile sono ad illeciti penali, di cui si sono resi responsabili i dipendenti, i quali hanno tenuto una condotta nota pubblicamente, causa della conseguente diminuzione della fiducia dei cittadini nelle autorità, con conseguenti danni e costi aggiuntivi da quantificare in via equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c.. Il ricorso all’equità è subordinato all’esistenza di difficoltà obiettive nella determinazione del quantum, di cui deve adoperarsi a dare prova la procura stessa che attiva il procedimento.
Nel caso in esame, la Corte dei Conti – tenuto conto dell’intervenuta sentenza penale – ha condannato il maresciallo a pagare a favore della Guardia di Finanza la somma di € 35.000,00, comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre gli interessi legali sulla citata somma dal deposito della sentenza al soddisfo oltre le spese del giudizio.
 

 
Il dispositivo della sentenza di condanna
 
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale per la Regione Siciliana
P.Q.M.
definitivamente pronunciando, respinta ogni altra contraria istanza, deduzione ed eccezione, in accoglimento della domanda della Procura Regionale,
condanna
il sig. Ciuro Giuseppe a pagare la somma di € 35.000,00 a favore della Guardia di Finanza, inclusa la rivalutazione monetaria, oltre gli interessi legali sulla citata somma dal deposito della presente sentenza al soddisfo; pone, altresì, a carico del convenuto le spese di giudizio che vengono liquidate a favore dello Stato e quantificate in € 133,78.
Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 30 marzo 2012.
L’ Estensore F.to Dott. Giuseppe Colavecchio
Il Presidente F.to Dott. Luciano Pagliaro
Depositata oggi in Segreteria nei modi di legge.
Palermo, 18 aprile 2012
 

La precedente condanna a un dirigente della Polizia di Stato
 
PALERMO – La seconda sentenza di condanna che ci apprestiamo ad analizzare è la n. 3227 del 2006 emessa dalla Corte dei Conti, nei confronti di un dirigente del Centro interprovinciale Criminalpol della Sicilia. Quest’ultimo era stato condannato con sentenza penale divenuta irrevocabile in data 26 5 2004, a seguito dell’ordinanza di inammissibilità del ricorso proposto in Cassazione dal citato dirigente poiché lo stesso “aveva posto in essere ripetute specifiche condotte di agevolazione dell’associazione criminale “Cosa Nostra”, fornendo il proprio contributo, non occasionale, alle finalità ed alle attività della predetta organizzazione criminale, strumentalizzando così i delicatissimi incarichi istituzionali dal medesimo rivestiti all’interno delle strutture investigative dello Stato preposte alla lotta alla criminalità organizzata”.
Il procedimento è stato avviato dalla Procura regionale presso la Corte dei Conti, che ha contestato al dipendente il danno all’immagine ed al prestigio del Corpo della Polizia di Stato, per l’importo di € 150.000,00 e ciò, tenuto conto della gravità della condotta, della pluralità delle attività criminose e della rilevanza della carica ricoperta, preposta – è appena il caso di sottolinearlo – al contrasto delle attività della criminalità organizzata, con la quale invece egli ha intrattenuto rapporti duraturi, proprio in ragione delle funzioni esercitate.
Dal canto suo, il dirigente ha eccepito la prescrizione dell’azione di responsabilità ai fini risarcitori ed ha dedotto il sopravvenuto intervento di elementi nuovi, atti a giustificare la sua richiesta di revisione del processo. Argomentazioni ritenute non sufficienti, tant’è vero che il Pm ha proceduto alla citazione in giudizio del dirigente, contestando le superiori eccezioni ed affermando l’esistenza di un consolidato orientamento della Corte, volto a considerare che “il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna del dipendente pubblico si ponga quale elemento di fatto costitutivo della fattispecie di danno erariale, necessario per l’esercizio dell’azione risarcitoria da parte del Procuratore regionale”. Motivo per il quale non può considerarsi intervenuta la prescrizione quinquennale, il cui termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e non già dalla commissione del reato, dalla quale ultima è scaturita la lesione dell’immagine della ministero dell’Interno anche per via della connessa diffusione della notizia.
Degna di nota è l’argomentare della Corte la quale si è soffermata soprattutto su un dato fattuale inconfutabile. Il dipendente per un certo tempo “ebbe, quindi, due datori di lavoro, lo Stato, verso il quale risultò essere infedele, e la Mafia, ai cui fini piegò e strumentalizzò la propria attività istituzionale di soggetto che, invece, avrebbe dovuto perseguire e reprimere quel fenomeno di criminalità organizzata”. Particolare di rilievo al fine della determinazione del quantum risarcitorio e, quindi, quale parametro di riferimento, è il fatto che le retribuzioni statali totali percepite in quel periodo dal dirigente, ammontano ad una somma ben maggiore di quella richiesta, dal Ministero, quale risarcimento del danno all’immagine.
La Corte, in sintesi, ai fini della quantificazione del danno, afferma che la stessa utilità degli stipendi percepiti, è stata sminuita dallo sviamento doloso delle finalità verso cui era diretta la propria attività di dipendente della Polizia di Stato. Sviamento da considerare ancor più grave, tenuto conto “dell’odiosità” del comportamento serbato in netta contrapposizione “alle funzioni di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso che avrebbe, invece, dovuto svolgere”. Alla luce delle superiori considerazioni, per la Corte, non ci sono gli estremi per una riduzione della condanna così come richiesta, che è stata pertanto confermata in € 150.000,00 oltre interessi e spese del giudizio.
 
 
avv. Francesca Pecorino
del Collegio dei professionisti di Veroconsumo

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