La Corte dovrebbe affrontare di nuovo l’argomento della pubblicità del dissenso
Nei giorni scorsi gli organi di stampa hanno dato notizia di un contrasto maturato in seno alla Corte costituzionale circa la soluzione da dare a un conflitto, insorto tra la Camera dei Deputati e la Commissione di disciplina del Consiglio Superiore della Magistratura, avente a oggetto intercettazioni, illegalmente effettuate secondo la Camera nei confronti dell’onorevole Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa per l’esercizio del mandato parlamentare e da utilizzare in un procedimento disciplinare avviato a suo carico al suo rientro in Magistratura.
Il relatore della causa, in disaccordo con la maggioranza favorevole al Csm, non aveva ritenuto di redigere la sentenza, la cui stesura era stata pertanto affidata ad altro giudice. Il professor Zanon, anch’egli in dissenso con i colleghi, cessato da giudice per fine mandato, ne aveva denunciato la contraddittorietà rispetto a precedenti pronunce in tema di guarentigie dei parlamentari.
L’episodio ha fatto riemergere un tema ricorrente tra gli studiosi di giustizia costituzionale: l’opportunità di introdurre in Italia la cosiddetta “opinione dissenziente” la possibilità cioè per i membri della Corte Costituzionale che dissentono dalla decisione presa dalla maggioranza del collegio di esternare il proprio dissenso scrivendo appunto una “opinione” con cui espongono i motivi per i quali la decisione avrebbe dovuto essere, a loro avviso, di segno opposto rispetto a quella assunta dalla maggioranza del collegio.
Tale possibilità non è prevista dalle “Norme Integrative per i giudizi dinanzi alla Corte” (NI) che disciplinano il processo costituzionale. Le decisioni sottoscritte inizialmente da tutti i giudici sono attualmente firmate solo dal Presidente e dal giudice incaricato di redigere la sentenza, di solito coincidente con il giudice relatore. Attualmente le NI prevedono che la redazione della decisione spetti al relatore salvo che “per sua indisponibilità o per qualsiasi altro motivo” sia affidata dal Presidente ad altro o più giudici, con una scissione quindi tra relatore e redattore/i. È una forma, seppur velata, di “dissenting opinion” visto che l’“altro motivo” che induce il relatore a rifiutarsi di redigere la decisione è presumibilmente da ricercare nella sua posizione di minoranza.
Secondo alcuni commentatori occorrerebbe fare un passo ulteriore rendendo esplicite le ragioni del dissenso. In passato autorevoli membri della Corte si sono divisi sul tema quando è venuto alla sua attenzione. Alcuni hanno ritenuto che l’opposizione all’introduzione del “dissent”, motivata con l’esigenza che la decisione apparisse espressione dell’intero collegio, senza far emergere eventuali disaccordi, fosse indice di una mentalità contraria a qualsiasi innovazione in favore di una maggior trasparenza; altri hanno invece giustificato il monolitismo (apparente?) delle decisioni con la necessità di scongiurare il rischio di strumentalizzazioni politiche degli eventuali dissensi, se resi manifesti.
Questo timore è ancora attuale? L’apertura della Corte alla società civile operata, sia nel processo costituzionale con il previsto intervento di formazioni sociali, soggetti istituzionali ed esperti, sia nella comunicazione, divenuta ormai sistematica e approfondita, potrebbe forse indurla ad affrontare di nuovo l’argomento della pubblicità del dissenso. Soprattutto in questioni su temi controversi, quali il fine-vita, la procreazione e il carcere, non sussiste un legittimo interesse dell’opinione pubblica a conoscere la posizione dei giudici dissenzienti, se ve ne sono, ufficialmente esternata, anziché manifestata su giornali libri e riviste?