Economia

Arriva la Web Tax, così l’Italia dichiara guerra ai “Big di internet”

ROMA – Dopo i fallimentari tentativi degli ultimi due anni, l’Italia ci riprova e questa volta ci riesce. Stiamo parlando della Web tax, che è ufficialmente entrata in vigore dal primo gennaio 2020 e che dovrebbe portare, solamente quest’anno, nelle casse dello Stato circa 708 milioni di euro.

Con la nuova legge di Bilancio ( n.160/2019), infatti, la tassa sui servizi digitali è stata liberata dai decreti attuativi mai approvati e che l’hanno tenuta bloccata negli ultimi anni.

La Dst (Digital service tax) italiana andrà a colpire principalmente tutti i Big di internet (come Google, Apple, Facebook e Amazon), in quanto le soglie di accesso prevedono un fatturato annuo globale di 750 milioni di euro e 5,5 milioni in servizi erogati sul territorio nazionale.

È esonerato dal pagamento della Web tax, invece, chi fornisce “beni e servizi” sul web, le aziende che sono in possesso di siti aziendali, i fornitori di servizi finanziari e bancari (solo quelli regolamentati dai Testi unici bancari e finanziari), le piattaforme telematiche per lo scambio di energia elettrica, gas, certificati ambientali e carburanti e le interfacce digitali che facilitano la vendita dei prodotti soggetti ad accise.

Quella che si potrebbe definire una tassazione tagliata su misura per le multinazionali asiatiche e statunitensi del web e che prevede un’aliquota del 3% sui ricavi ottenuti da queste stesse aziende in Italia, punta a recuperare in almeno 18 mesi i tributi persi dal mancato avvio della norma lo scorso anno (150 milioni) e lo fa innalzando di 108 milioni di euro all’anno la raccolta inizialmente prevista dalla scorsa, ovvero 600 milioni all’anno. Una raccolta che beneficerà certamente della perenne espansione che caratterizza questo settore. L’aliquota del 3% sarà applicata sui ricavi annuali italiani delle aziende del web (non più trimestrali come prevedeva la scorsa legge di Bilancio) e dovrà essere versata entro il 16 febbraio successivo alla chiusura dell’anno solare. Le aziende soggette a questa tassazione, inoltre, dovranno presentare entro il 31 marzo dello stesso anno una dichiarazione sull’ammontare dei servizi tassabili forniti, i quali dovranno avere “un’apposita contabilità separata”. Per quanto riguarda i gruppi societari, la Dst potrà essere pagata da un’unica società “nominata”, mentre per le multinazionali estere (quelle non residenti in territorio Ue o nello spazio economico europeo) dovrà essere nominato un rappresentante fiscale.

Visto che la tassazione riguarda solamente il business italiano dei Big di internet, per individuare gli “affari” che si sono conclusi in territorio nazionale, la Dst ha stabilito che il supporto informatico su cui “si finalizza il servizio di intermediazione deve avere un Ip geolocalizzato in Italia”.

Con questa norma, il Governo italiano, sulla scia di quello francese e di quello spagnolo, ha deciso di anticipare la norma “globale e globalmente accettata” annunciata dall’Ocse (Organizzazione per la coesione e lo sviluppo economico) e che dovrebbe entrare in vigore entro la fine del 2020. Proprio per questo alla Dst italiana (così come a quella francese) è stata aggiunta una clausola di restituzione o compensazione dell’eventuale differenza maturata tra la futura legge globale e ciò che sarà versato all’Erario italiano fino a quel momento.