Il recente scandalo, derivante da denuncia interna al Parlamento regionale siciliano, dei soldi distribuiti a pioggia “ad personam”, durante le manovre finanziarie poggia su un paradosso
Il recente scandalo, derivante da denuncia interna al Parlamento regionale siciliano, dei soldi distribuiti a pioggia “ad personam”, durante le manovre finanziarie poggia su un paradosso. Nel 1947 la Sicilia chiese con forza l’Autonomia speciale, da cui la sussistenza, ormai povera di contenuti politici, di un Parlamento regionale con enormi poteri, sulla carta, legislativi in confronto alle altre regioni italiane, per altro nate molto dopo. Questa Autonomia era legata alla nostra specialità, insulare e di frontiera, alla nostra arretratezza economica e culturale, che esigeva riforme ad hoc per trasformare l’isola, per svilupparla, per ridurre il divario con il resto del Paese. La politica regionale fino a circa 20 anni fa, nonostante storture e malvezzi, era orientata a questo scopo.
Con questo non vogliamo dire che i politici erano puri e qualcuno, se non diversi, non tentavano di arricchirsi tramite l’attività politica. Ma il parlamento era un luogo di interessi collettivi, magari consociativi, se vogliamo clientelari, ma collettivi. Ovviamente non era coinvolta la società siciliana per intero, ma quei gruppi e quelle categorie che rappresentavano il blocco sociale su cui la politica investiva attenzione, interessi e risorse. La rottura di questo modello di rapporti e rappresentanza politica arriva nel 2001, non tanto per l’elezione di Cuffaro, esponente ultroneo del vecchio schema politico, ma per l’introduzione dell’elezione diretta. Questo modello, rispetto ai governi di elezione e fiducia parlamentare, concentra il potere nell’eletto presidente di turno, e nelle mani di coloro che hanno contribuito al risultato elettorale. Il potere, le decisioni, le scelte si concentrano nelle mani di 5 o 6 persone di cui una, il Presidente direttamente eletto, ha l’ultima parola. Questo da un lato ha favorito la governance, dall’altro ha depotenziato la rappresentanza.
Tra i 70 deputati regionali eletti, pochi, molto pochi, esercitano un ruolo o hanno un’influenza sui processi decisionali e politici. Da anni assistiamo al nulla di fatto sulle riforme, di espressione parlamentare, e l’isola ha non solo aumentato il suo divario dal resto del Paese, ma è tornata su alcuni temi, vedi la gestione delle risorse idriche, indietro di decenni. Il Parlamento regionale di fatto non legifera più, tranne le manovre di bilancio, plurime, per carenza di maggioranze stabili. Tali norme che regolamentano la spesa pubblica, in grandissima parte costituita da risorse extraregionali, visto che la stragrande maggioranza dei fondi regionali è impegnata per spesa fissa obbligatoria, sono gestite da quelli stessi che hanno costruito la governance, e i deputati sono dei semplici “peones” che poco o nulla possono fare per l’isola o per il loro territorio di rappresentanza politica.
Il parlamento regionale siciliano è di fatto svuotato, si limita a voti segreti che per essere dati, cioè per trovare una maggioranza in Aula, devono essere “comprati” con una serie di emendamenti ad personam, per singolo deputato, che sceglie di andare a votare se ha un minimo di tornaconto. Di fatto siamo passati dall’Autonomia speciale a quella personale. Questo ha un prezzo, lo svuotamento del proprio ruolo politico di fronte all’elettorato, per cui difficile è riproporsi con argomenti politici e collettivi, ma solo con esclusive clientele personali, fatte da scambi o promesse di dubbia esigibilità.