La Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, confermando la sentenza di primo grado, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della scorta.
Condannati a dieci anni di reclusione i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia.
I giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato a Vincenzo Scarantino pure lui imputato di calunnia.
“La sentenza conferma il depistaggio”
“La conferma della sentenza di primo grado dimostra come, nell’ambito dei processi Borsellino uno e bis si sia consumato forse il più grave depistaggio della storia italiana”.
Ad affermarlo sono gli avvocati Vincenzo Greco e Fabio Trizzino, legali dei figli del giudice Paolo Borsellino, Lucia, Fiammetta e Manfredi dopo la sentenza del processo d’appello che ha condannato all’ergastolo, per l’attentato, i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci.
Chi sono i condannati
Madonia, capomafia palermitano della cosca di San Lorenzo, sarebbe stato tra i mandanti dell’attentato. Tutino, invece, avrebbe partecipato alla fase esecutiva della strage. I falsi pentiti sarebbero autori del clamoroso depistaggio delle indagini sulla strage che ha portato alla condanna di nove innocenti, assolti poi nel giudizio di revisione.
Le accuse dei falsi collaboratori di giustizia Pulci e Andriotta sono state fondamentali per le loro condanne: da qui la contestazione della calunnia. Stesso reato contestato a Scarantino al quale, però, in primo grado fu riconosciuta la circostanza attenuante di essere stato indotto a mentire. La concessione dell’attenuante ha comportato la prescrizione del reato.
Il ruolo del pentito Spatuzza
A far crollare il castello di menzogne costruito attorno all’attentato è stato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che ha scagionato i nove accusati ingiustamente e indicato i veri responsabili della fase esecutiva della strage. Per il depistaggio sono sotto processo, in un giudizio ancora in primo grado, davanti al tribunale di Caltanissetta, tre poliziotti che facevano parte del pool investigativo che indagò sulla strage e che, secondo l’accusa, avrebbero imbeccato i finti pentiti.
Il pg Fabiola Furnari, “resta più di un vuoto”
“La sentenza di conferma di oggi consente di ritenere accertata la responsabilità di tutti gli imputati, ma resta ancora più di un vuoto dietro l’artificiosa gestione dei falsi collaboratori. Questo è un elemento altrettanto importante e che non può essere sottaciuto”.
Lo dice il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Fabiola Furnari che ha rappresentato l’accusa al processo d’appello Borsellino quater. Imputati due boss condannati all’ergastolo e i due falsi pentiti Andriotta e Pulci che, con le loro menzogne, contribuirono a depistare le indagini sull’attentato. Entrambi oggi hanno avuto 10 anni.
“Tra gli altri per Andriotta, pugliese di nascita – aggiunge il magistrato – apparentemente estraneo al contesto territoriale, evidentemente attratto dalla promessa di benefici premiali, colpiscono, in modo significativo, i dati acquisiti sulla preparazione e gestione della sua falsa collaborazione, connotata, come accertato, da un progressivo, preciso, studiato, adeguamento delle sue rivelazioni alle esternazioni di Scarantino, e con un obiettivo specifico, dalla posizione di quest’ultimo inscindibile, ed evidentemente inteso a nuocere, e non per pochi anni, all’accertamento della verità pur al prezzo della condanna di altri persino a vita”.
La Strage di via D’Amelio
La cosiddetta “Strage di via D’Amelio” avvenne il 19 luglio del 1992, a pochi mesi da quella di Capaci, che aveva come obiettivo il giudice Giovanni Falcone.
Alle ore 16:58, una Fiat 126 rubata contenente quasi cento chili di esplosivo del tipo Semtex-H esplose in via Mariano D’Amelio a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitava Maria Pia Lepanto, madre di Paolo Borsellino, e dove il giudice quella domenica si era recato in visita.
L’agente sopravvissuto, Antonino Vullo descrisse così l’attentato: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…”.
Lo scenario descritto da personale della locale Squadra Mobile giunto sul posto parlò di “decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati”.
L’esplosione causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti.
Sul luogo della strage, pochi minuti dopo il fatto, giunse immediatamente il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.