“Non ho notato alcuna volontà, al di là del tentativo di discolparsi, di dare un contributo per capire cosa è accaduto. E questo mi fa molto male”.
Fiammetta Borsellino sbotta dopo aver ascoltato in silenzio la lunga deposizione dell’ex pm Nino Di Matteo.
Uno sfogo amaro a margine dell’udienza in cui il magistrato ha raccontato gli anni delle indagini sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino, ucciso in via D’Amelio insieme alla sua scorta.
Di Matteo, che era nel pool che indagò sulla strage, è stato citato al processo ai tre poliziotti che condussero l’inchiesta, Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo. Accusati di depistaggio, avrebbero costruito una verità a tavolino imbeccando falsi pentiti e costringendoli a mentire.
“Di mio padre, questi magistrati non hanno capito nulla – ha detto Fiammetta Borsellino – Parlano di pool ma di lavoro in pool non ne ho visto nemmeno l’ombra perché quando gli si fanno certe domande cadono dalle nuvole”.
Di Matteo non sa ancora delle parole di Fiammetta e continua a parlare ai giudici dell’ombra dei Servizi segreti sulla strage di via D’Amelio, del giallo della presenza di Bruno Contrada sul luogo della strage subito dopo l’attentato, del mistero dell’agenda rossa scomparsa: pezzi mancanti di un puzzle che da quasi 28 anni attende di essere composto.
Tutte piste sulle quali, fin dal giorno dopo l’esplosione che uccise il magistrato, avrebbe provato a indagare.
Da qualche mese eletto al Csm, il teste ricorda anche i dubbi sul pentimento di Vincenzo Scarantino precisando di non avere mai saputo di pressioni degli investigatori sull’ex picciotto della Guadagna, piccolo spacciatore diventato a tavolino teste chiave dell’inchiesta.
Ma che Scarantino le sparasse grosse lo avevano temuto in molti in Procura. Non solo Ilda Boccassini, allora pm applicato a Caltanissetta, ma anche gli altri colleghi. E pure Di Matteo. Tanto che gli ergastoli definitivi, ci tiene a sottolineare, ottenuti nei vari processi sulla strage, non si basarono sulle false verità del sedicente collaboratore di giustizia.
“Quando ci siamo resi conto della progressione inverosimile delle accuse di Scarantino – spiega – le sue dichiarazioni le abbiamo usato per pochissime cose. I dubbi c’erano. Lo intercettammo proprio per quello”.
E sulle accuse rivolte all’ex collega del pool Carmelo Petralia che nel corso di una intercettazione parla di ‘preparazione’ della deposizione del collaboratore di giustizia, spiega: “l’attività di preparazione dei pentiti consisteva solo nel dare indicazioni ad esempio sul contegno da tenere in aula, questo significa ‘preparare’ ed era una prassi seguita da tutti”.
Ma la gestione del falso pentito che, secondo l’accusa, sarebbe stato imbeccato dai poliziotti e costretto ad accusare otto mafiosi poi condannati ingiustamente, per Di Matteo è solo un “tassello” di una vicenda molto più grande e grave. Una vicenda che vede Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, in via D’Amelio dopo la strage. Una presenza, quella del funzionario poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, messa nero su bianco in una relazione firmata dai primi poliziotti intervenuti dopo l’esplosione e poi, secondo alcuni carabinieri, fatta distruggere.
“Indagammo su tutto con sforzi bestiali – racconta Di Matteo – nonostante le reticenze istituzionali e il vero e proprio muro di gomma alzato sul processo a funzionari di polizia accusati di aver mentito sulle vicende che coinvolgevano Contrada”. Ombre fitte ancora non dissipiate e alcune certezze: “a far sparire l’agenda rossa – dice Di Matteo – non fu certo Graviano. E la strage di Via D’Amelio non fu solo una strage di mafia”.