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Capaci, da magistrati e politici, basta all’antimafia di facciata

Il ricordo di Giovanni Falcone interroga l’antimafia.

Quanta coerenza c’è tra pratiche quotidiane e principi proclamati nelle passerelle?

Le vicende più recenti e gli arresti di alcuni “paladini” della legalità, tra cui quello del manager della sanità Antonino Candela avvenuto appena due giorni fa, sembrano ispirare alcune riflessioni amare proprio nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci.

Dal procuratore Francesco Lo Voi al presidente del tribunale Salvatore Di Vitale fino al presidente della Commissione regionale antimafia Claudio Fava, tanti sollevano dubbi e perplessità su quella che viene definita una “antimafia di facciata”.

Di Vitale la descrive come un sodalizio che “vive di riflessi mediatici e di momenti celebrativi”. E c’è, aggiunge, chi fa ricorso a schemi strumentali per accreditarsi come la “parte buona”.

Per Di Vitale ci vuole un ricambio culturale ma soprattutto un rovesciamento del valore negativo della stessa parola antimafia: bisognerebbe usarla nel senso positivo dei comportamenti non solo nelle cerimonie.

Questa è in fondo la lezione che anche il procuratore Lo Voi trae dal lavoro di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.

“Come loro non ce ne sono stati più e non ce ne sono adesso”. Erano “unici”. Poi sono venuti tanti “imitatori”. Qualche replicante magari è in buona fede ma gli originali, come si sa, sono un’altra cosa. A volte, è il giudizio di Lo Voi, i replicanti “fanno ridere”.

“Il fatto è che l’antimafia si è allargata troppo”, dice Giuseppe Di Lello che faceva parte con Falcone del pool antimafia.

“Si è scelto di fare la pesca a strascico. E così sono finiti nella stessa barca chi paga il pizzo e chi lo fa pagare e quelli che proclamano una cosa e ne fanno un’altra. Ma attenzione: c’è tanta gente che che fa antimafia con gesti concreti e senza tanti proclami”.

Dalla magistratura alla politica, il presidente della commissione regionale antimafia allarga il campo delle critiche e in un’intervista dice che “bisognerebbe abolire per decreto l’etichetta antimafia riferita ai giornalisti, ai politici, agli imprenditori”.

“È oggi – chiarisce – un’etichetta che sa di carnevale, di auto rappresentazione. È autoreferenziale, l’antimafia da copertina, quella ricevuta al Quirinale, che nel chiuso dei corridoi delle stanze spiega cosa vuol dire fare il ‘capocondominio’, espressione usata da Candela in un dialogo intercettato per spiegare il proprio ruolo apicale nel sistema sanitario regionale”.

Fava pensa ai ragazzi spesso travolti dalla “dimensione rutilante dell’eroe”, suggerisce la costruzione di un nuovo alfabeto.

E muove una critica anche all’informazione: “Se domani si incontra un giornalista che dice ‘io faccio il giornalista antimafia’ bisogna farlo accomodare fuori. È una ritualità che produce carriere e toglie formazione”.