Nel corso dei secoli gli Ebrei hanno vissuto in Paesi diversi e anche lontani tra loro, con la conseguenza di far proprie le tradizioni gastronomiche dei popoli presso cui si trovavano. Con questo andare lontano le famiglie hanno appreso, spesso riadattandole, ricette locali che poi hanno portato con loro, con la conseguenza che mangiare ebraico può comportare un ampio spaziare tra i cibi più svariati.
Questo caleidoscopio di gusti e sapori, però, non è stato mai privo di una sua disciplina, ma sin dalle origini ha avuto salde regole. Infatti, il distinguo tra ciò che può essere commestibile e ciò che non lo è proviene direttamente dalla Torà (la Bibbia così denominata dal Popolo ebraico).
L’argomento, per la sua fondamentale importanza, è ripreso in due dei suoi Libri (Levitico XI: 1-47; XX:25-26 e Deuteronomio XIV: 3-21). La relativa normativa che si è andata già elaborando nei secoli.
Si afferma che per poter essere consumato il cibo deve essere rispettoso delle regole della kasherut. Parola che deriva da kasher, che letteralmente significa adatto, o regolare, o permesso. Gli Ebrei osservanti, quindi, non possono alimentarsi in modo non rispettoso di queste regole, che non solo individuano quali sono gli alimenti, gli animali e i pesci che possono essere mangiati – e quelli che devono essere evitati – ma anche le regole di macellazione, conservazione e cottura.
In modo estremamente sommario possiamo affermare, per esempio, che non sono kasher: il maiale, i pesci senza squame e i crostacei. Carne e latte vanno tenuti e conservati separati e, quindi, non sono ammesse pietanze che utilizzano questi due alimenti insieme. Quest’ultimo divieto può apparire, per chi non conosce questa complessa materia, persino bizzarro e oltremodo incomprensibile.
La prescrizione che impedisce la commistione tra carne e latte ha una sua precisa origine nella Torà, ed esattamente nel precetto: “Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre”, che per sottolineare l’importanza è ripetuto per ben tre volte (Esodo XXIII: 19; XXXIV, 26; Deuteronomio XIV: 21). Per alcuni le motivazioni del divieto sono da attribuire ai riti di fertilità celebrati dalle popolazioni locali di aree della Mesopotamia, che avevano in uso queste vivande, usi che gli Ebrei rifuggivano, in quanto manifestazione di religiosità pagana. Per altri, hanno radici teologiche e simboliche ed evidenziano il divieto di accomunare la forza della vita, che si manifesta nel principale nutrimento, qual è il latte, e la morte, che si manifesta con la cottura della carne.
A differenza di quanto pensano molti, tutte queste regole non derivano da esigenze di carattere alimentare o igienico, bensì spesso dalla disponibilità all’osservanza di norma, che gli Ebrei accettano, anche se le motivazioni sono imperscrutabili, come spesso sono i disegni dell’Eterno, ma a cui prestano osservanza con entusiasmo, anche perché questi precetti di frequente servono a sottolineare la differenzia tra chi è Ebreo e chi non lo è.
Si obietta, agli Ebrei, che questo modo di alimentarsi, al giorno d’oggi, comporta difficoltà pratiche ed è motivo d’isolamento. Loro, spesso, rispondono che l’osservanza è invece motivo di ricerca e aggregazione tra persone che condividono la medesima fede ed è quindi strumento per avversare la solitudine, male che affligge sempre più l’umanità ai nostri giorni.
La miriade di ricette di cui la cucina ebraica è ricca hanno dato luogo a un’altrettanto ricca saggistica. Facendo torto a non meno apprezzati libri, per ragioni di carattere pratico, ricordiamo, soltanto: “Di casa in casa” di Women Keren Hayesod, edizioni Proedi, una raccolta di oltre 250 ricette, provenienti da Paesi diversi e segnalate da famiglie, che le hanno tramandate nelle loro cucine di generazione in generazione. E ancora “Ricette e precetti” di Miriam Camerini, edizioni Giuntina, in cui la scrittrice percorre, con leggerezza ma allo stesso tempo con profondità e impegno, il legame tra alimentazione e religione.