Il “caso Mattei” è un pezzo importante della nostra storia, che ha avuto influenze importanti nel nostro assetto politico e industriale. Un caso irrisolto, senza colpevoli, dove alla verità di comodo si affiancano tante ipotesi, senza giungere mai a una verità almeno storica. Questo perché il “caso Mattei” è una storia di complotti nei confronti di una delle più importanti aziende di Stato, l’Eni, di cui Enrico Mattei era presidente in quella sera del 27 ottobre 1962. Complotti che miravano a eliminare Mattei per la sua politica energetica, per la sua scelta di non essere subalterno alle “sette sorelle”, le maggiori aziende petrolifere.
Un caso che ha mostrato il volto oscuro del potere in Italia. Il Fondatore di Eni cambiò il volto del Paese nel dopoguerra, assumendo un ruolo di primo piano nel mercato del petrolio controllato dalle “sette sorelle”. Il QdS ripercorre la sua storia, a partire dal tragico incidente aereo in cui perse la vita.
C’era appena stato un violento temporale, la sera del 27 ottobre 1962 sul cielo della Lombardia. E continua a piovere anche quando un aereo privato, un Morane-Saulnier MS-760 Paris I, proveniente dallo scalo di Catania, dal quale era partito alle 16,55, e diretto a Linate precipitò dopo una “fiammata improvvisa” nella campagna di Bascapè, un paesino in provincia di Pavia fino a quel momento sconosciuto alle cronache. Alle 18.57 il pilota del velivolo Bertuzzi aveva informato la torre di controllo di aver iniziato la discesa su Milano-Linate. Ai soccorritori non restò che estrarre dalle lamiere o raccogliere nel fango sparsi nell’arco di cinquecento metri i resti dei tre occupanti il velivolo: il pilota, Irnerio Bertuzzi, il giornalista americano William McHale, inviato delle riviste statunitensi “Time-Life”, ed Enrico Mattei, presidente dell’Eni, cui apparteneva il jet. William McHale era su quel volo per intervistare il manager.
Enrico Mattei, 62 anni, in quel momento è l’italiano di cui tutto il mondo parla con ammirazione e con ostilità. L’ostilità nei suoi confronti è tale che, da diversi mesi si muove scortato da un robusto servizio di sicurezza formato da ex partigiani fidatissimi. Le minacce di morte nei suoi confronti erano arrivate dal movimento terroristico francese di destra Oas, che non si rassegnava all’indipendenza dell’Algeria da Parigi, anche grazie ai finanziamenti dell’Eni al Fronte di liberazione nazionale del paese magrebino. Mattei era entrato a gamba tesa, con intuizioni geniali e spregiudicatezza, nel mondo strategico del petrolio, conquistando nel giro di pochi anni un ruolo di primissimo piano, diventando così un concorrente scomodo per le grandi compagnie internazionali che al tempo si dividevano il mercato dell’oro nero, le cosiddette “Sette sorelle”, locuzione da lui stesso coniata, ossia sia la Esso, la Texaco, la Standard Oil dei Rockfeller, la Bp, la Shell, la Chevron e la Gulf Oil.
La sua spregiudicatezza nello stringere accordi commerciali anche con l’Unione Sovietica in piena “guerra fredda”, aveva attirato su di lui anche l’attenzione della Cia, l’agenzia d’intelligence statunitense. Ma anche all’interno del proprio gruppo il manager italiano non era amato da tutti. Pochi mesi prima dell’attentato, per contrasti interni, aveva allontanato dall’Eni il suo braccio destro, Eugenio Cefis, che, dopo la sua morte, rientrerà in azienda per succedergli sul ponte di comando.
Mentre sulle telescriventi di tutto il mondo rimbalzava la notizia della tragedia del Morane-Saulnier, diffusa dall’Ansa, l’idea che non si fosse trattato di un attentato balenava nella mente di molti. L’indagine svolta dall’Aeronautica militare e dalla Procura di Pavia immediatamente dopo il disastro aereo si chiusero dopo appena quattro mesi. Nessun attentato, il Morane-Saulnier era precipitato per concomitanza di fattori tecnici e delle condizioni psico-fisiche del pilota. Il procedimento fu archiviato “perché il fatto non sussiste” e, quindi, Enrico Mattei e gli altri occupanti del velivolo erano morti a seguito di un tragico incidente. Alle stesse conclusioni arrivò anche la commissione ministeriale voluta da Andreotti.
Bisognò aspettare gli anni ’90, quando i reperti ritrovati poterono essere analizzati con l’utilizzo delle nuove tecnologie disponibili, fecero riaprire l’inchiesta. L’analisi metallografica dell’anello d’oro, dell’orologio indossati da Mattei e di frammenti del velivolo, effettuata nei laboratori di Mariperman della Spezia, dimostrò che c’è stata una deflagrazione in volo. Nell’aereo, secondo le conclusioni della magistratura, una bomba di circa 150 grammi realizzata con Compound C4, fu collocata dietro al cruscotto dell’apparecchio. Era destinata ad attivarsi nella fase di atterraggio ed esplose nel cielo di Bascapè quasi sicuramente in conseguenza dell’apertura del carrello. Il sostituto procuratore Vincenzo Calia (vedi intervista in pagina) concluse nel 2005 che “si trattava senza ombra di dubbio di un attentato” e che la sua esecuzione fu “pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato”. Purtroppo i mandanti, come gli autori materiali e il movente dell’attentato, costituiscono ancora uno dei tanti misteri italiani.
Non c’è invece alcun dubbio sulla levatura di Mattei, la cui figura si staglia con chiarezza nella storia del nostro Paese e non solo. A capo di un’impresa di Stato che si occupava di risorse energetiche, in realtà inizialmente destinata alla liquidazione, fu grazie alla sua intuizione, primo in Italia subito alla fine del secondo conflitto mondiale, che il petrolio fu ritenuto la chiave di volta del potere politico ed economico. Nello scenario ancora sconvolto dell’immediato dopoguerra Enrico Mattei fu il manager che cercò, con successo per sé e per l’Italia, un ruolo da protagonista sul palcoscenico mondiale dell’energia.
“Se in questo Paese sappiamo fare le automobili, dobbiamo saper fare anche la benzina”, diceva Enrico Mattei. Creò un grande oleodotto europeo da Genova al centro Europa, nacquero le reti distributive in Germania, Grecia e Regno Unito. La rete di rifornimento Agip attraversava tutta l’Italia: il metano arrivò nelle case degli italiani. La sua tenacia e caparbietà gli permisero di giocare questa difficile partita senza complessi d’inferiorità. Offrì ai paesi produttori migliori condizioni rispetto ai competitori pur di farsi aprire i rubinetti dei pozzi dei paesi produttori del Nord Africa e del Medio Oriente. In quei paesi si accreditò sostenendo i movimenti indipendentisti che si battevano per la decolonizzazione. Inaugurò un’aggressiva strategia commerciale, stringendo accordi, senza remora alcuna rispetto al colore politico degli interlocutori, e in Italia si garantì un’enorme libertà d’azione, anche condizionando con metodi non sempre ortodossi, governi e partiti. Nel 1955 fondò un quotidiano, “Il Giorno”, di cui l’Eni resterà il padrone “occulto” per un lungo periodo, al fine di sostenere i progetti e il potere del gruppo da lui diretto.
Enrico Mattei, ex leader partigiano, politico a tutto tondo esponente di primo piano e deputato della Democrazia cristiana, era un “self made man” che, prima di iniziare la sua avventura nel petrolio, era stato un imprenditore affermato. La sua figura incarnò lo spirito dell’Italia del Dopoguerra. Da paese devastato, nel giro di quindici anni riuscì, con un miracolo che lasciò a bocca aperta tutti gli osservatori economici internazionali, a risalire la china fino ad assumere il ruolo di quinta potenza industriale del mondo e a meritare per la lira, la moneta al momento in corso in Italia, l’oscar della moneta più solida, riconoscimento assegnato dalla prestigiosa rivista finanziaria “Financial Times”.
Non solo, perché Enrico Mattei fu anche un personaggio divisivo, lui, il campione di quel capitalismo di stato che rappresentava una sorta di alternativa credibile e funzionale al sistema privato. Ma questa sua scelta, da grande servitore dello Stato, lo rese inviso al resto del mondo dell’impresa, alla Confindustria e ai liberisti che ne denunciano i legami opachi con la politica e i partiti, il ricorso alla corruzione, lo strapotere fuori da ogni controllo, quasi al di sopra delle leggi, la spregiudicatezza con cui si fa forza del ruolo pubblico della sua impresa per ingigantirla fino a farne una sorta di impero. Per i tempi era un uomo di potere sui generis. Portava sempre da sé la borsa e le carte, s’infuria se qualche collaboratore si offriva di prenderle in consegna e, nell’auto di servizio, sedeva accanto all’autista, mai nel sedile posteriore. Amava fare squadra e si circondò di fedelissimi, tra questi molti ex partigiani e molti intellettuali, che condivisero con lui la lotta della Resistenza. Ma soprattutto molti marchigiani come lui, in particolare nati a Matelica, il paese dove è cresciuto.
Era nato ad Acqualagna, località che oggi si trova nella provincia di Pesaro e Urbino, il 29 aprile del 1906. Quinto figlio di una famiglia poverissima. Il padre, sottufficiale dei carabinieri, era nel gruppo di militari che catturarono il famoso bandito Musolino. Tentò la fortuna a Milano, dove sbarcò il lunario facendo l’agente di commercio per la Max Meyer, una nota fabbrica di vernici. A trent’anni si mise in proprio nel settore chimico e, grazie alle sue capacità imprenditoriali, in breve tempo diventò un imprenditore facoltoso. Fu il professor Marcello Boldrini, docente di statistica alla Cattolica che conobbe durante gli anni ’30 nel suo periodo milanese, che gli trasmise la passione per la politica e che lo introdusse nel ristretto circolo di antifascisti che diedero, poi, vita alla Democrazia cristiana.
Nell’immediato dopoguerra fu incaricato dallo Stato di smantellare l’Agip, creata nel 1926 dal regime fascista e considerata un’azienda da rottamare. Mattei invece di seguire le istruzioni del governo, riorganizzò l’azienda fondando nel 1953 l’Eni, di cui l’Agip diventa l’asse portante. Partì in quel momento un nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella Pianura Padana e aprì il paese all’energia nucleare. Sotto la sua presidenza, l’Eni negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica.
Enrico Mattei introdusse una novità rivoluzionaria che scosse il mercato dei prodotti petroliferi assegnando ai paesi proprietari delle riserve il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Si trattava di una royalty molto più alta di quella offerta dalle “Sette sorelle” mettendole in difficoltà, aggiudicandosi contratti molto appetibili. Sotto il logo del “cane a sei zampe”, adottato dall’Agip nel 1952, fiorirono centinaia di società come Liquigas, l’Anic, Nuovo Pignone, Lanerossi e Motel Agip. Consapevole che per godere della libertà e del potere che gli servivano aveva bisogno del supporto della politica. A tal proposito vale la pena ricordare la sua dichiarazione rilasciata in un’intervista “I partiti? Per me sono come i taxi. Salgo, mi faccio portare dove voglio, pago la corsa e scendo”.
Ma proprio quando la stella di Mattei arrivò allo zenit iniziarono ad arrivargli minacce e avvertimenti che precedettero l’attentato di Bascapé, minacce che confidò alla moglie e al fidato caposcorta. Il primo tentativo di attentato avvenne l’8 gennaio 1962, quando era atteso in Marocco per l’inaugurazione di una raffineria, e il pilota del suo aereo scoprì un cacciavite fissato con nastro adesivo a una delle pareti interne del motore.
Il 26 ottobre salutò la moglie dicendole che poteva anche succedere che non sarebbe tornato, quando con il suo Morane-Saulnier MS-760 Paris I, volò verso la Sicilia. L’invito a Mattei ad andare in Sicilia era stato fatto per rassicurare la popolazione di Gagliano sulle intenzioni dell’Eni di costruire una raffineria in zona, quindi di portare lavoro e conforto economico a quel sud bistrattato e sfruttato. Enrico Mattei riposa oggi nel cimitero di Matelica.
Vincenzo Calia, magistrato oggi in quiescenza, ha lavorato in procura a Pavia e come Pubblico Ministero ha condotto la terza inchiesta sulla morte di Mattei. Nel 2017 ha pubblicato per Chiarelettere, insieme a Sabrina Pisu il libro “Il caso Mattei”. QdS l’ha intervistato per farsi raccontare la sua indagine sulla morte del presidente dell’Eni.
Dottor Calia, quando e perché apre un fascicolo sulla morte di Enrico Mattei?
“Nel 1994, quando la procura di Caltanissetta m’inviò le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Gaetano Iannì che, de relato, raccontava che Mattei fu ucciso da Cosa Nostra italiana su richiesta di Cosa nostra americana. Un’informazione generica, in realtà, sulla quale bisognava cercare di capire se tali dichiarazioni erano riscontrabili. Eravamo già in presenza di un’inchiesta giudiziaria, aperta subito dopo la sciagura di Bascapè, che si concluse il 31 marzo 1966. Una sentenza del giudice pavese Antonio Borghese dichiarava di ‘non doversi procedere in ordine ai reati rubricati ad opera di ignoti, perché i fatti relativi non sussistono’. Mi resi conto che si trattava, parlo delle dichiarazioni di Iannì, di informazioni che andavano approfondite per capire se Mattei fosse stato in effetti vittima di un attentato o se fosse fondata la conclusione dell’indagine degli anni ’60. Recuperai dall’archivio il fascicolo di quell’indagine. Leggendolo mi resi conto che serie indagini non erano state fatte e pensai, quindi, che fosse opportuno fare un’indagine preliminare”.
Come decise di procedere?
“Acquisii tutto quello che era disponibile sull’argomento, libri, articoli di giornale, filmati dell’epoca e successivi. Proprio visionando i diversi filmati disponibili m’imbattei nel servizio mandato in onda dalla Rai la sera del 27 ottobre 1992 che conteneva l’intervista di un contadino, Mario Ronchi. Mi resi conto che l’audio della sua intervista conteneva un difetto: l’audio, per ben due volte, spariva. A quel punto inviai i Carabinieri alla sede Rai per acquisire la pellicola originale. Anche nella visione del filmato originale mancavano gli stessi spezzoni audio. Grazie all’aiuto di un vecchio tecnico della Rai scoprimmo che la banda audio era stata tagliata e sostituita con delle parti vergini”.
Riuscì a determinare quando fu fatta la manomissione?
“Proprio grazie al tecnico capimmo che l’operazione fu eseguita con la pressa Cattozzo (dal nome di un montatore che inventò e costruì la più famosa incollatrice per pellicole, la ‘pressa Cattozzo’, spesso chiamata semplicemente Cattozzo, per la quale è stato nel 1990 insignito di un Oscar speciale, il Technical Achievement Award, ndr), una tecnica entrata in uso in Rai all’inizio degli anni ’70. La manomissione avvenne verosimilmente nello stesso periodo in cui esplose il caso De Mauro e si ricominciò a parlare della morte di Enrico Mattei, periodo in cui la stampa e anche la magistratura ricominciano a occuparsene”.
Oltre alle dichiarazioni di Iannì, altri collaboratori di giustizia hanno parlato della morte di Mattei?
“In realtà dichiarazioni serie sulla morte di Mattei non le ha rese nessun collaboratore di giustizia. Spesso si dice che Buscetta ne abbia parlato con Falcone e, a tal proposito, acquisii tutte le sue dichiarazioni ma dlalla loro lettura non risulta alcunché, se non che non ne sapeva nulla. Le sue affermazioni sono solo contenute in un libro ma, ancora una volta, non sono riscontrabili e, soprattutto, mai rese all’autorità giudiziaria. La stessa considerazione vale per le dichiarazioni di De Carlo che potremmo definire contraddittorie”.
Durante la sua fase d’indagini, ricordo, scoprì anche altre anomalie…
“M’imbattei in diverse contraddizioni e anche in un libro, al tempo, scomparso”.
Di quale libro sta parlando?
“Parlo del libro firmato da Giorgio Steimetz, ‘Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente’, che scoprii essere stato ritirato dal mercato. Cercai di trovarlo, inviando i carabinieri nei due luoghi in cui doveva esserci, parlo delle sedi di Firenze e Roma dell’Archivio Nazionale di Stato in cui si versa la copia d’obbligo, ma anche in quei due luoghi non ce n’era copia. Poi, a seguito di un colpa di fortuna, ne trovai casualmente una copia sul banchetto di una bancarella in un mercato dell’antiquariato proprio a Pavia”.
È stato difficile, negli anni ’90, ritrovare i testimoni oculari di quel momento?
“I testimoni erano numerosissimi e la squadra di carabinieri che lavorava con me ne individuò diversi, tra questi il più significativo fu Colmi, le cui dichiarazioni furono manomesse dalla Commissione d’inchiesta. Tutti, da luoghi diversi, riferirono di aver visto e sentito l’esplosione in alto, la caduta di fiammelle dal cielo e il fragore dovuto all’impatto dell’aereo sul terreno”.
Quali furono, quindi, le sue conclusioni?
“Anche grazie agli accertamenti scientifici che feci eseguire, compresa quella del professor Donato Firrao, già Preside della I° Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino, determinai che, con certezza, c’era stata un esplosione in volo dell’aereo su cui viaggiava Mattei”.
Quindi il Morane-Saulnier 760 fu oggetto di una manomissione?
“Sì. Una piccola carica di esplosivo fu piazzata dietro al cruscotto mentre il velivolo era parcheggiato nell’aeroporto catanese di Fontanarossa. E la manomissione fu eseguita senza dubbio da persona che non solo aveva le competenze tecniche necessarie ma che aveva una conoscenza specifica del velivolo, visto che, ritenemmo, che l’esplosione interagiva direttamente con il sistema elettro-meccanico di apertura del carrello di atterraggio”.
Si esclude, quindi, la mano mafiosa?
“Direi di sì, perché le competenze per la manomissione non appartenevano a chi non fosse un tecnico che conoscesse il complesso impianto elettrico del Morane-Saulnier 760, l’aereo francese di Mattei”.
A questo punto sorge spontanea una domanda. Chi ha ucciso Enrico Mattei?
“Potrei risponderle con le parole di Pier Paolo Pasolini: Io so, ma non ho le prove. La vera domanda sulla morte di Mattei è: Cui prodest?”.
Rosangela Mattei, nipote di Enrico Mattei, fondatore e primo presidente del gruppo Eni, aveva tredici anni quando, il 27 ottobre 1962, lo zio perse la vita nei pressi di Bascapé, nel Pavese, mentre il suo aereo rientrava all’aeroporto di Linate. Nell’intervista rilasciata al QdS parla dello zio Enrico e del percorso che ha vissuto, e continua a vivere, per mantenere vivo e saldo il suo ricordo.
Rosangela, chi era Enrico Mattei?
“Sul fatto che Enrico Mattei sia stato ucciso, oramai, non c’è più alcun dubbio, anche grazie all’indagine svolta da Vincenzo Calia. Enrico Mattei è stato un grande imprenditore, un grande combattente, con una particolare capacità di operare perché non temeva nulla e nessuno, non aveva alcun scrupolo nell’affrontare i problemi. La sua intelligenza era assolutamente non normale e quanto lui ha fatto lo dimostra. Voglio ricordare la sua politica nei confronti dei paesi fornitori di greggio, nei confronti dei quali diede l’avvio alla c.d. ‘Formula Mattei’ capace di rompere gli accordi ‘fifty-fifty’ inaugurati dalle ‘Sette sorelle’ (locuzione coniata dallo stesso Enrico Mattei dopo la nomina a commissario liquidatore dell’Agip nel 1945 per indicare le compagnie petrolifere mondiali che formavano il cartello Consorzio per l’Iran e che dominarono per fatturato la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla crisi del 1973, ndr) che guadagnavano il 50% dei proventi dal petrolio, modificandolo un accordo che prevedeva per i paesi un guadagno del 75% dei profitti, garantendo nel contempo all’Eni le concessioni e gli ingenti quantitativi di petrolio utili al soddisfacimento del mercato nazionale italiano. Inoltre al centro del suo progetto c’era anche il Mezzogiorno d’Italia, in particolare la Basilicata e la Sicilia. Non c’è alcun dubbio che la sua eliminazione sia dovuta alla necessità di distruggere lui e il suo operato per creare beneficio ad altri. Noi fummo minacciati, come famiglia, direttamente quando andammo a testimoniare nel corso dei diversi processi anche perché, come raccontammo agli inquirenti, noi indicammo come mandanti della sua morte gli italiani”.
Lei è stata molto vicino allo zio Enrico…
“Sì perché ho frequentato un collegio a Roma, dove lui risiedeva. Nei miei confronti era molto premuroso. Mi portava e mi veniva a prendere dal collegio e passavo con lui moltissimo tempo. Nei miei confronti ha avuto un atteggiamento quasi paterno. Lei pensi che, nel febbraio del 1962, mi coinvolse nel varo di una petroliera”.
A Matelica lei è riuscita a creare il Museo Mattei. Come nasce questa idea?
“Potrà sembrare strano ma è iniziato tutto con sogno avvenuto otto anni fa. Il materiale riguardante lo zio era accatastato in un’unica stanza, non fruibile, nella casa di campagna. Nel sogno, lo zio Enrico era nel salone e si rivolse a mio figlio Aroldo chiedendogli di ‘fare qualcosa’ di tutto questo materiale. Mi misi in contatto con il proprietario di un appartamento nel ‘palazzo Mattei’ e glielo chiesi in affitto creando uno spazio che, giorno dopo giorno, è diventato il museo che oggi contiene quasi 3.000 pezzi tra cimeli, documenti e i reperti dell’attentato, compresi quelli che erano ancora, al tempo, nella disponibilità della procura e che è stato inaugurato il 7 aprile 2018. Tra i vari reperti esposti ci sono anche alcuni frammenti da cui si è potuta evincere la presenza di una sostanza esplosiva che, a suo tempo, furono messi a disposizione del Ris di Roma. Dopo una lunga trattativa con Eni sono anche riuscita a portare al museo la sua auto, l’Alfa Romeo Giulietta color azzurro nube che recentemente è stata esposta davanti a Palazzo Chigi. Oltre al Museo vanno ricordate la ‘Fondazione Enrico Mattei’ di Matelica e la ‘Fondazione Social Economic Development’, di cui è presidente mio figlio Aroldo Curzi Mattei che, da qualche tempo, è entrato a pieno titolo tra coloro che collaboreranno alla realizzazione del Piano Mattei per l’Africa, grazie anche ai forti legami da tempo stretti con il governo algerino. La scelta di volere un membro della famiglia, in particolare Aroldo, nel Piano Mattei, è derivato dal fatto che da anni si sta operando con l’obiettivo di far conoscere il metodo Mattei dell’integrazione e dello sviluppo economico, avverso alle politiche predatorie. L’ambasciatore della Repubblica di Algeria aveva richiesto da subito concretezza per il Piano Mattei e certamente questa scelta va in questa direzione. Da parte mia, ho lavorato per l’operazione di partenariato con la ‘Associazione Amici della rivoluzione algerina’, che ha la sua sede in Italia proprio a Matelica, nello stesso palazzo che ospita il museo”.