Economia

Istat, la crisi da pandemia ha aumentato le disuguaglianze

ROMA – La crisi provocata dalla pandemia “produrrà i suoi effetti anche nelle dinamiche di riproduzione sociale delle diseguaglianze collegate alle classi sia perché c’è una diversa esposizione ai rischi, legata ad esempio al tipo di lavoro, sia per una differente vulnerabilità in termini di malattie croniche e di capacità di avvantaggiarsi delle cure disponibili”.
Lo ha messo in evidenza il Rapporto annuale dell’Istat presentato ieri alla Camera.

“Pertanto sarà più probabile che gli effetti negativi si distribuiscano in modo diseguale e si osservino di più nelle classi basse che in quelle alte”, aggiunge l’Istat evidenziando come “nonostante la diminuzione tra le generazioni del livello complessivo di ereditarietà sociale, la classe di origine continua a condizionare i destini occupazionali degli individui, creando disuguaglianze nelle opportunità degli individui”.

ASCENSORE SOCIALE BLOCCATO

In sintesi, scrive l’Istat “i nati nell’ultima generazione (1972-1986) hanno visto aumentare il grado di meritocrazia presente nel Paese, ma anche conosciuto una contrazione delle probabilità di accedere alle posizioni più vantaggiose della scala sociale. Nel loro caso, dunque, le disparità collegate alle classi sociali si accompagnano a un aumento delle disparità tra le generazioni”.
Le possibilità di miglioramento delle posizioni sociali diminuiscono “perché la stagnazione del sistema economico e i modelli organizzativi della Pubblica amministrazione impediscono una sufficiente espansione delle posizioni più qualificate, determinando di fatto un downgrading delle collocazioni per le giovani generazioni”, aggiunge l’Istituto di Statistica.

12% DELLE IMPRESE VALUTA TAGLIO DIPENDENTI

È “preoccupante” e rappresenta un “segnale negativo” il fatto che quasi il 12% delle imprese si orienti verso una “riduzione sostanziale” dei dipendenti; la tendenza tocca però solo il 6 per cento di quelle maggiori. Le misure di contenimento dell’epidemia hanno provocato una “significativa riduzione” dell’attività economica per una larga parte del sistema produttivo: oltre il 70% delle imprese ha dichiarato una riduzione del fatturato nel bimestre marzo-aprile 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; oltre il 40% ha riportato una caduta maggiore del 50%.
I fattori di fragilità sono molteplici. “Il problema del reperimento della liquidità è molto diffuso, i contraccolpi sugli investimenti – segnalati da una impresa su otto – rischiano di costituire un ulteriore freno ed è anche preoccupante che il 12% delle imprese sia propensa a ridurre l’input di lavoro. Tuttavia, si intravedono fattori di reazione positiva e di trasformazione strutturale in una componente non marginale del sistema produttivo”.

PIÙ MORTI TRA I MENO ISTRUITI

L’epidemia di coronavirus “ha colpito maggiormente le persone più vulnerabili, acuendo al contempo le significative disuguaglianze che affliggono il nostro Paese, come testimoniano i differenziali sociali riscontrabili nell’eccesso di mortalità causato dal Covid-19”. E a confermarlo sono proprio i dati: “l’incremento di mortalità – si legge nel documento – ha penalizzato di più la popolazione meno istruita: il rapporto standardizzato di mortalità – che misura l’eccesso di morte dei meno istruiti rispetto ai più istruiti – è intorno a 1,3 per gli uomini e a 1,2 per le donne. Lo svantaggio è più ampio tra i 65-79enni residenti nelle aree con alta diffusione dell’epidemia, sia per gli uomini (1,28 a marzo 2019, 1,58 a marzo 2020) sia per le donne (da 1,19 a 1,68)”.

CRESCONO PESSIMISMO E INSICUREZZA

L’emergenza generata dalle conseguenze della pandemia da Covid 19 “ha portato a un atteggiamento di diffusa insicurezza: ad aprile il 10,2 per cento degli occupati (circa 2 milioni 300 mila unità) dichiara di temere di perdere il lavoro entro sei mesi (erano il 6,7 per cento un anno prima)”.

Nel 2019 Internet è utilizzato regolarmente dal 74% degli individui tra i 16 e i 74 anni, contro l’85% nella Ue28. Gli utenti con competenze digitali elevate sono il 22% in Italia e il 33% in media europea. Lo spiega l’Istat nel Rapporto annuale 2020. Le famiglie italiane completamente sprovviste di internauti sono 6 milioni 175mila (il 24,2% del totale): in prevalenza si tratta di quelle costituite da soli anziani e da componenti con basso titolo di studio. Sensibili le differenze territoriali: la quota di famiglie in cui nessun componente usa la Rete tocca quasi il 30% al Sud e nei comuni fino a 2mila abitanti.
L’Italia presenta inoltre livelli di scolarizzazione tra i più bassi dell’Unione europea, anche con riferimento alle classi di età più giovani. Nell’Ue27 (senza il Regno Unito), il 78,4% degli adulti tra i 25 e i 64 anni ha conseguito almeno un diploma secondario superiore. In Italia l’incidenza è del 62,1% (dati 2019). I tassi d’occupazione degli adulti di 25-64 anni con titolo universitario sono, in Italia e nell’Ue27, più elevati di quasi 30 punti rispetto a quelli di chi ha al più la licenza media. I possessori di diploma secondario superiore hanno, a loro volta, tassi d’occupazione più elevati di quasi 20 punti percentuali rispetto a chi è meno istruito. Nel caso delle donne, nel nostro Paese il differenziale complessivo è di quasi 42 punti. In Italia, prosegue il rapporto, i diplomati hanno un reddito superiore del 34% rispetto a chi ha al più la licenza media, e la laurea conferisce un premio aggiuntivo di un ulteriore 37%.

CROLLO NATALITÀ, SI TEMONO 10.000 NATI IN MENO

La rapida caduta della natalità potrebbe subire un’ulteriore accelerazione nel periodo post-Covid. Recenti simulazioni, che tengono conto del clima di incertezza e paura associato alla pandemia in atto, mettono in luce un suo primo effetto nell’immediato futuro; un calo che dovrebbe mantenersi nell’ordine di poco meno di 10mila nati, ripartiti per un terzo nel 2020 e per due terzi nel 2021.

Secondo l’Istat, la prospettiva peggiora ulteriormente se agli effetti indotti dai fattori di incertezza e paura si aggiungono quelli derivanti dallo shock sull’occupazione. I nati scenderebbero a circa 426mila nel bilancio finale del corrente anno, per poi ridursi a 396mila, nel caso più sfavorevole, in quello del 2021.
L’Italia è un Paese a permanente bassa fecondità. Il numero medio di figli per donna per generazione continua a decrescere dai primi decenni del secolo scorso, ma il numero di figli effettivo che le persone riescono ad avere non riflette il diffuso desiderio di maternità e paternità presente nel nostro Paese: sono solo 500mila gli individui tra i 18 e i 49 anni che affermano di non avere la maternità/paternità nel proprio progetto di vita.

A fronte di una fecondità reale in costante calo dal 2010 che riporta l’Italia agli stessi livelli di 15 anni fa, resta fermo a due il numero di figli desiderato, evidenziando uno scarto tra quanto si desidera e quanto si riesce a realizzare. Il modello di fecondità ideale è omogeneo a livello territoriale. Ben il 46,0% delle persone desidera avere due figli, il 21,9% tre o più. Solo il 5,5% ne desidera uno mentre un quarto è indeciso sul numero.
Il desiderio di avere figli è elevato anche dopo i 40 anni. Sono 830mila gli over40 che non hanno figli ma intendono averne (pari al 12,1% tra i 40 e i 44 anni e al 4,2% nella classe di età successiva).

Sanità, in Italia offerta posti letto ospedalieri dimezzata in 23 anni. 3,5 ogni mille abitanti contro media Ue di 5 ogni mille, 8 in Germania

L’offerta di posti letto ospedalieri si è ridotta notevolmente nel tempo in Italia: nel 1995 erano 356mila, pari a 6,3 per 1.000 abitanti, nel 2018 sono 211mila, con 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti. Nell’Ue28 mediamente l’offerta di posti letto è di 5,0 ogni 1.000 abitanti, in Germania sale a 8.

L’attività ospedaliera si è concentrata sull’erogazione di prestazioni a più elevata intensità assistenziale. Tra il 2010 e il 2018 è diminuita la quota destinata ai reparti con specialità di base, passata dal 55,6% nel 2010 al 52,6% nel 2018; per contro è aumentata la proporzione di posti letto nei reparti con specializzazione di media ed elevata assistenza (dal 24,6% al 25,2%) e in quelli della terapia intensiva (dal 3,6% nel 2010 al 4,3%).

L’impatto dell’emergenza coronavirus sull’assistenza ospedaliera c’è stato, ma limitato. Sono diminuiti i ricoveri per le malattie ischemiche del cuore e per le malattie cerebrovascolari ma è rimasta invariata la capacità di trattamento tempestivo e appropriato di queste patologie una volta ospedalizzate. Si è ridotta drasticamente l’offerta di interventi di chirurgia elettiva non urgente ma quella per interventi non differibili in ambito oncologico e ortopedico sembra non abbia subito contraccolpi.

Il Rapporto sottolinea come l’emergenza sanitaria sia intervenuta “a valle di un lungo periodo in cui il Servizio sanitario nazionale è stato interessato da un ridimensionamento delle risorse. Dal 2010 al 2018 la spesa sanitaria pubblica è aumentata solo dello 0,2% medio annuo a fronte di una crescita economica dell’1,2%. Una tendenza negativa prevalsa nel corso degli anni è la riduzione della spesa per investimenti delle Aziende sanitarie, scesi dai 2,4 miliardi del 2013 a poco più di 1,4 miliardi nel 2018.

Il rallentamento della spesa è dovuto principalmente alla diminuzione del personale sanitario. Rispetto al 2012 il calo è del 4,9% e ha riguardato anche medici (-3,5%) e infermieri (-3,0%). Nello stesso periodo (2012-2018) il solo personale a tempo indeterminato del comparto sanità si è ridotto di 25.808 unità (-3,8%): i medici sono passati da 109mila a 106mila (-2,3%) e il personale infermieristico da 272mila a 268mila (-1,6%).