La Repubblica non è più quella di Scalfari - QdS

La Repubblica non è più quella di Scalfari

La Repubblica non è più quella di Scalfari

venerdì 10 Maggio 2024

Elkann chiede, il Governo nega

Notiamo con dispiacere che il quotidiano La Repubblica, fondato tre anni prima del QdS, cioè nel 1976, non è più quello di Eugenio Scalfari, un maestro del giornalismo che era diventato quasi un punto di riferimento per la politica italiana, nel bene e nel male.

Quando Scalfari scriveva qualche cosa, magari dopo avere parlato col primo ministro dell’epoca o con i Papi, con cui aveva un’interlocuzione diretta e continua, quasi nessuno osava contraddirlo.
Naturalmente non è che Scalfari fosse un oracolo, commetteva errori, aveva le sue fissazioni, ma, nel complesso, dava un orientamento preciso alla linea editoriale del suo giornale, di cui peraltro era comproprietario.

Aveva la piena fiducia del principe Lucio Caracciolo e dell’ingegnere Carlo De Benedetti, che erano poi i soci di maggioranza della società editoriale, mentre i giornalisti seguivano le sue indicazioni senza alcuna esitazione.

Allora le vendite delle copie dei giornali erano notevoli e per lungo tempo vi fu una gara quasi impari con uno dei più antichi quotidiani italiani, il glorioso Corriere della Sera, oggi amministrato da Urbano Cairo, che l’ha mondato dalle perdite e l’ha portato in utile, non con un gesto di abracadabra, bensì con sapienza gestionale e con intuito di mercato.

L’uscita di Scalfari da La Repubblica e anche delle famiglie De Benedetti e Caracciolo e l’ingresso dell’allora gruppo Fiat capitanato da John Elkann, ha cambiato la linea editoriale.
Questo fatto è del tutto normale e cioè che il giornale deve rappresentare il punto di vista dell’editore, fermo restando l’autonomia del direttore responsabile e dei giornalisti.
Ma se l’editore una certa vicenda la vede bianca, il giornale non può dire che è nera. Scriviamo questo per rimettere a posto la questione e, cioè, che l’informazione – seppur debba essere vera, completa e obiettiva – non può non seguire come linea di fondo la direttiva del suo editore.
Tant’è vero che il rapporto col direttore responsabile è fiduciario e può essere troncato in qualunque momento senza alcuna causa.

Il nuovo editore, che aveva anche in portafoglio La Stampa piemontese e Il Secolo XIX ligure, ha lentamente, ma visibilmente, fatto cambiare la linea de La Repubblica. Poi Elkann ha venduto Il Secolo XIX e con i due giornali che gli sono rimasti persegue gli interessi del suo gruppo, il quale, com’è noto, è confluito nel più grande gruppo Stellantis, ove il socio di maggioranza fa parte della società che produce i marchi Peugeot-Citroën.

I due quotidiani di Elkann hanno imboccato una strada fortemente critica e contraria al Governo Meloni e questo si evince ogni giorno dai titoli di prima pagina, dalle inchieste, dalle foto e da quant’altro sia caratteristico del quotidiano La Repubblica.
Non entriamo nel merito di quanto esprimono direttore e giornalisti; ce ne guarderemmo bene. Tuttavia, possiamo tentare di dedurre quali possano essere le ragioni di questa forte critica, giusta o sbagliata che sia.

Non possiamo non rilevare – perché non abbiamo il prosciutto sugli occhi – le forti tensioni che ci sono fra l’ex Fiat e l’attuale Governo, soprattutto perché il ministro del Mimit, Adolfo Urso, ha posto la questione primaria che le auto prodotte in Italia da quel gruppo debbano aumentare dalla soglia attuale di settecentocinquantamila l’anno a un milione. Ma il gruppo risponde che vuole contributi a vario titolo, dunque oggi vi è un braccio di ferro fra Governo e Stellantis per questioni di soldi.

Non è facile, per conseguenza, supporre che la linea editoriale dei quotidiani La Repubblica e La Stampa risenta di questa forte frizione fra le due parti? Del resto, in qualunque vicenda accaduta nei secoli e che accade nei nostri giorni bisogna sempre cercare i motivi economici che la inducono: “Chercher l’argent”.

Non riteniamo che questo contrasto possa mitigarsi o terminare, anzi riteniamo che i toni si accentueranno perché le ragioni retrostanti permangono e non sembra che si avviino verso un compromesso, che invece sarebbe utile a tutti.

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