Cultura

La profezia orwelliana, digitale e limiti alla libertà

Nel 1948, quando l’orrore della guerra era ancora palpabile, George Orwell, forse mosso da un profondo senso di sfiducia nei confronti degli esseri umani e della loro scarsa volontà di perseguire il bene comune, scrisse del Grande Fratello in un racconto ambientato trentasei anni dopo, quindi nel 1984, in una Londra fredda e cupa, stretta nella morsa della tirannide di un governo totalitario.

Il dittatore cui si fa riferimento nel libro è un uomo misterioso, che nessuno ha mai visto in faccia, ma che conosce tutto di tutti, perché controlla costantemente la vita di ogni cittadino. In quella società la libertà è stata totalmente e definitivamente soppressa e ogni tentativo di rivolta può costare torture e persino la perdita della vita.

Una storia che ha qualcosa di profetico e che veicola in sé un monito per tutti gli uomini del ventunesimo secolo. Ai nostri giorni, dopo la “Rivoluzione digitale” per la prima volta l’umanità si trova a fronteggiare le insidie e i pericoli delle nuove tecnologie, che hanno una capacità di sorveglianza sui cittadini che soltanto pochi decenni orsono sarebbe stata inimmaginabile. Non ci si riferisce in particolare ai cosiddetti spyware, dei software creati per spiare le persone (giacché il loro utilizzo di norma sia riservato ad ambiti di intelligence, anche se spesso vengono alla cronaca a seguito di fatti eclatanti e per cui è desumibile che se ne faccia un grade utilizzo e peraltro non sempre lecito).

Prendiamo, per esempio, il caso di Pegasus, applicazione capace di penetrare nel sistema della messaggistica WhatsApp. Al momento della scoperta del suo impiego illecito, è stato rilevato che erano state spiate ben millequattrocento utenze, in venti diversi Paesi del mondo, riferite in prevalenza a politici, diplomatici, giornalisti e oppositori di governi dittatoriali.

Vi sono poi i Trojan, software spia che trasformano il cellulare in un microfono capace di effettuare delle validissime intercettazioni ambientali. Inizialmente utilizzati soltanto nelle indagini di mafia e terrorismo, dal 2019 ne è stato autorizzato l’uso anche per le indagini riguardanti i reati contro la Pubblica amministrazione con la cosiddetta legge “Spazza corrotti”.

Tralasciando di considerare tutto quello che rientra nell’ambito delle indagini di tipo poliziesco o che riguarda gli 007, l’obiettivo è occuparsi del mondo civile e del vivere di tutti i giorni, con particolare riferimento alle insidie che minacciano il comune cittadino che naviga per diletto o per necessità su internet, che fa acquisti in rete o comunque esegue pagamenti con la carta di credito (basti pensare alle novità introdotte dal Cashback di Stato e all’app Io), che passa il badge per la raccolta punti fedeltà al supermercato, o ancor più utilizza il computer per lo smart working.

Proprio questa nuova modalità di lavoro da remoto, che è stata incentivata, se non proprio resa obbligatoria, in occasione del periodo di distanziamento sociale imposto dalla profilassi per la pandemia del Coronavirus, consente a datori di lavoro poco corretti e troppo intraprendenti di accedere a dati personali del collaboratore, che quest’ultimo non avrebbe mai fornito spontaneamente. Informazioni utilizzabili, all’insaputa dello stesso, per le valutazioni finalizzate a una progressione in carriera o peggio per la scelta delle persone da licenziare. Questa forma di subdola captazione di dati dai social, o quant’altro presente nel pc del dipendente, costituisce la più grande elusione della legislazione che impone ai datori di lavoro severi divieti in materia di indagini, o comunque di acquisizioni di informazioni, riguardanti elementi estrinseci al rapporto di lavoro.

Nel settore del commercio ormai costituisce la normalità l’utilizzo di dati, comunque acquisiti al fine di promuovere e incrementare le vendite. Infatti, chi ha la disponibilità di dati anche semplici e immediatamente rilevabili, può ottenere ulteriori e più interessanti informazioni sulla specifica propensione all’acquisto dei singoli cittadini mediante un’operazione che metta in correlazione questi dati, peraltro in modo del tutto lecito. La rilevazione avviene ogni qualvolta si fa un acquisto o una semplice ricerca di generi di interesse sul web, con una sorta di schedatura non autorizzata, giacché ciascuno di noi è un portatore di dati.

Conseguenzialmente, in questo quadro hanno acquisito un ruolo di protagonisti, e di primo piano, i gestori dei servizi di connettività, che sono il tramite per cui passa ogni dato in rete. Ma anche i semplici titolari di qualsiasi sito, che venga ripetutamente visitato, hanno un loro importante ruolo, giacché attraverso l’installazione automatica di stringhe di testo sui dispositivi dei visitatori, noti come Cookies, effettuano la loro opera di intercettazione. Questo modo di raccoglie informazioni è l’origine di quel fenomeno per cui se sul web manifestiamo un qualche interesse per un articolo o un genere merceologico, poi, per un bel po’ di tempo, ci vedremo bersagliati da offerte commerciali di prodotti analoghi a quelli in precedenza attenzionati.

I nostri dati, quindi, come qualsiasi bene di interesse economico, sono oggetto di compravendita, che può avvenire direttamente o per il tramite della figura del Data broker. Si tratta di un mercato importante il cui valore complessivo mondiale supera di gran lunga il Pil di un grande stato.

Oggi più che mai il controllo dei dati rappresenta la strada maestra per il potere e può essere percorsa da chiunque abbia la disponibilità di una considerevole quantità di essi, nonché la capacità e gli strumenti per una loro veloce elaborazione. È incontestabile che questa elaborazione consenta, in modo assolutamente determinante e profondo, di incidere sulla vita dei cittadini, cui i dati appartengono, sino al punto di influenzare e indirizzare sia la loro propensione al consumo, sia – ancora più grave – di condizionare la loro visione del mondo. È intuibile come non sfuggano al condizionamento le scelte politiche e come il concetto stesso di libertà ne risulti fortemente contaminato.

Passando a un altro fronte, un ulteriore motivo di perplessità è costituito dall’impiego sempre più diffuso di procedimenti decisionali automatizzati, con l’impiego di algoritmi avanzati, da cui non sono escluse le grandi selezioni per le assunzioni. È intuibile, visto l’impiego in funzioni così delicate, che si crei una sorta di inevitabile sudditanza del cittadino rispetto a questi processi, con effetti importanti per la vita di chi li subisce, ma astrusi e che quindi ai più restano di difficile comprensione, sia, ancora, per possibili decisioni caratterizzate da un alto livello di imprevedibilità.

Sono ben note, perché hanno avuto un’eco formidabile, le notizie riguardanti il reclutamento di insegnanti effettuato a seguito del Piano straordinario nazionale di assunzioni concernenti la “Buona scuola”, con cui si è data attuazione alla riforma del sistema nazionale dell’istruzione (voluto dalla L. 13/7/2015 n.107). In quell’occasione l’assegnazione delle sedi avvenne con l’impiego di un algoritmo di cui il Ministero si era appositamente dotato. I risultati hanno pesantemente stravolto la vita di molti insegnanti e delle loro famiglie, che si sono visti trasferire in altre regioni e in sedi molto lontane, senza mai potersi rendere conto, sino in fondo, dell’inevitabilità e della correttezza della scelta dell’algoritmo, di cui peraltro con il passare del tempo è stata messa in dubbio l’utilità e la necessità, anche perché dopo alcuni anni non pochi insegnanti hanno ricevuto destinazioni presso sedi più vicine.

A questo punto appare necessario interrogarsi sulle cause che hanno spinto l’uomo dell’era postindustriale, ad abdicare sostanzialmente alla sua originaria idea di libertà, cosi come gli era stata consegnata dalle generazioni precedenti, che con immensi sacrifici l’avevano conquistata, o quantomeno cosa lo renda sonnolento e intorpidito al cospetto dei segni rivelatori dell’erosione costante che i diritti direttamente inerenti alla persona vanno sempre più subendo.

Allo stesso tempo è necessario pure chiedersi se i cittadini abbiano inconsciamente accettato la loro sudditanza alle intelligenze artificiali, oppure non si siano accorti a quale stadio involutivo siano pervenuti in questo insidioso ma allettante Paese dei Balocchi costituito dalla realtà virtuale, in cui il rapporto tra il mondo reale quello digitale diviene sempre meno percepibile. Un mondo che spesso viene considerato una realtà parallela, in cui rifugiarsi.

Lo dimostra, in ultimo, quanto accaduto il primo agosto scorso a Crema, dove una donna si è cosparsa di liquido incendiario e si è data alle fiamme, mentre la gran parte dei presenti, anziché soccorrerla (come hanno fatto pochi), hanno preferito filmarla con i cellulari, nel folle tentativo di trasformare un orrendo suicidio in immagini sensazionali, rubate guardando la realtà del buco della chiave.

A questo rapporto sovvertito tra uomo e tecnologia si è infelicemente giunti perché nella realtà dei nostri giorni, si è assistito all’affermarsi di un gigantismo della tecnica informatica e alla sua massima diffusione, alimentato da un’esigenza vera o soltanto presunta di grande efficienza che si è rapportato a un contestuale rachitismo della cultura umanistica. Tutto ciò ha dato luogo a un vero e proprio calo di tensione del pensiero comune, che ha avuto la conseguenza di provocare, immediatamente, uno scarso interesse per la libertà, avvertita per un verso come allontanamento dalle regole del vivere in relazione con gli altri e idolatria di un egoismo sfrenato e miope; mentre per altro verso ha indotto alla errata considerazione che, comunque, la libertà costituisca una prerogativa della società moderna e come tale non possa mai perdersi.

Corollario immancabile di ciò è un generalizzato disinteresse per la politica, intesa come Governo della Cosa comune, che invece viene avvertita soltanto come area di conquista e dominio dei furbi e degli opportunisti.

Per opporre una diga al dilagare sempre più avvertito e condiviso di queste percezioni, specie tra i giovani, occorre quindi fare un’operazione culturale di base che metta l’uomo al centro di ogni conflitto di opposti interessi e, muovendo da questo presupposto, cercare soluzioni e risposte ai problemi che ci siamo posti e che oggi ci appaiono del tutto insolubili. Senza questo primo passo, sarà veramente arduo per la comunità scientifica internazionale individuare regole etiche e norme giuridiche che possano restituire dignità all’individuo nel suo quotidiano confronto con le intelligenze artificiali, o meglio con chi le utilizza spesso in modo del tutto egoistico.