Ogni volta che vado a Lampedusa mi torna in mente Kevin Kostner in “Balla coi lupi”. Lui voleva vedere la frontiera prima che scomparisse. L’isola di Lampedusa è la terra più a Sud dell’Europa, il confine nel cuore dell’Africa settentrionale. La Frontiera. Una frontiera che sembra senza bandiera. Un melting pot di razze, etnie, specie marine e terrestri. Sei frontiera da piccole che ti sembrano grandi cose. Si è rotto un cavo sottomarino e non c’è né telefono né connessione, a meno che non hai Tim. Quando lo riparano? Non si sa, forse domani. Niente mail, telefonate, internet e social. Perfetto. Frontiera.
Lo capisci che sei ai confini di un continente immediatamente quando scendi la scaletta dell’aereo. Il collegamento verso la Sicilia – diciamo “continentale” – è assicurato da una compagnia danese. Noi italiani abbiamo già difficoltà a tenere in piedi una compagnia senza bandiera, figuriamoci se riusciamo a collegare un’isola semi sperduta. Si parte da Palermo con un bimotore e, dopo aver sorvolato la provincia trapanese di cui riconosci le dolci colline, ti avventuri in mare, il Mare Nostrum. Poi finalmente scorgi, dopo mezz’ora, un’Isola. Atterri in questa ex base militare. Appena esci dal portellone un caldo secco, africano, ti avvolge e ti imprime un respiro differente. Senti quasi una densità diversa, come se la forza di gravità cambiasse. Entri nel piccolo Aeroporto, incredibilmente ben gestito da una società dell’Ast, la pericolante Azienda Siciliana Trasporti. E appena fuori sei già in paese, potresti andarci a piedi, se il sole non picchiasse a questo parallelo come un maglio.
Il paese è una casbah siculo-araba, con un corso principale, pieno di negozietti e bar, pomposamente chiamato via Roma, come se l’Italia qui esistesse. I famosi migranti, famigerati per alcuni, non certo per gli abitanti conviventi, si vedono poco o nulla. Sono confinati dopo gli sbarchi nell’hotspot, decisamente insufficiente e gestito in maniera approssimativa. Ci sarebbe la base Loran della Marina, che ospitava radar potenti che scrutavano il Mediterraneo, ma nessuno si occupa di ristrutturarla per usi umanitari.
Siamo al 35° Parallelo, e la prospettiva del mondo si capovolge. Siamo il Sud dell’emisfero che guarda a Settentrione con aspirazioni controverse. Una zolletta tettonica che è il punto nautico di flussi di varia umanità, in cerca di speranze, sicurezze, vite differenti, rispetto a quelle da cui si scappa. Un luogo in cui l’Italia, l’Europa, l’Occidente sedimentano i loro sensi di colpa verso l’umanità, e verso l’ineluttabile declino demografico.
Poi c’è quel mare assurdo. Senza possibilità di fuga. Ti circonda e ti ricorda la tua insufficienza, rispetto alla sua potente bellezza. Pelagiche si chiamano queste tre isole, Lampedusa, Lampione – poco più di uno scoglio – e Linosa. Se ci fosse un dio del Mare, non parliamo di ministri, un tritonico Poseidone, vivrebbe sicuramente qui, emergendo squamoso e luccicante all’isola dei conigli. E poi il pesce, abbondante, splendido, vivo, con varietà autoctone come il famoso Ciollaro.
Il sole, l’aria, il pesce di Lampedusa vanno presi con calma, con un’assuefazione lenta, bisogna ‘nuotare’ in quest’isola con lo stesso “annacamento” subacqueo del Ciollaro.
Quest’isola o la ami o la detesti, non ha mezze misure, è estrema. Ti dà una frenesia immane appena arrivi, e una saudade fortissima quando te ne vai. È un’isola tossica, che da dipendenza, una Circe in mezzo al Mediterraneo. Ulisse è stato ineludibilmente qui, se no Omero non poteva scrivere certamente l’Odissea.
Così è se vi pare.