Ci sono alcuni scrittori, narratori, giornalisti, che hanno bisogno di un luogo non anonimo per poter scrivere. Un luogo che pulsi di vite altrui, di stimoli vocali e fisici, posture e odori, misture e alcool. Che sappia di caffè o di thè, che sia un bar o un bistrot, in cui ci possa essere un pain au chocolat o del foie gras, del grillo o del nero d’Avola, o un cocktail martini e delle olive decenti.
Da un vetro vedono scendere giù la pioggia con quel ritmo da blues o si scaldano al sole su un tavolino che traballa mentre scrivono, con un cameriere che gli mette una zeppa e gli sorride sapiente. Scrivono di vite sommerse dal dolore o invase dalla follia, di amori che tormentano anime sdrucite, di passioni politiche e pensieri indisponenti tra culture contrastanti. Scrivono di se stessi per la maggior parte, di parti di sé esposte al cospetto di un pubblico che non conoscono. Scrivono di sé e per sé, se poi gli altri li leggono è un incidente dell’esistenza.
Alcuni non sanno scrivere se non immersi nella vita che scorre dentro locali frequentati, tra sguardi ispiranti, tracce di personaggi, voci e suoni che non distraggono, ma accompagnano. Spesso costoro sono soli, in una strana solitudine affollata dagli avventori, come delle isole nella confusione. Isole distaccate, come quel c*zzo di Ibiza citata da Hugh Grant in “About a boy”, ma così interconnesse poi alle altre persone, che in un accidente di destino si possono incrociare in un bar. Era così Tomasi di Lampedusa, seduto al suo solito tavolo al Bar Mazara, in via Magliocco, mentre tratteggiava il pasticcio di maccheroni annunciato con un fantastico “Pran pron”, dal maggiordomo di campagna del Principe di Salina nel Gattopardo. Forse si ispirava proprio ai piatti di quel mitico ristoro oggi tristemente chiuso nel centro di Palermo.
Keats e Byron si ispiravano alle arie neoclassiche del Caffè Greco di Roma, sotto una piazza di Spagna senza turisti di dubbio gusto e di culture decadenti. Oppure Hemingway, seduto al bar di un albergo del dopoguerra, che annotava frasi scoppiettanti dei suoi “I quarantanove racconti” davanti a un Cuba libre caraibico. Jack Kerouac seduto davanti a un bicchiere di whisky al bar Vesuvio di San Francisco progettava “On the Road”, una vita di strade e bevute.
Al Carousel di New Orleans Faulkner sostava meditabondo e il malinconico Tennessee Williams, drammaturgo e soggettista cinematografico, immaginava uomini eleganti, vestiti di bianco come quelli del Grande Gatsby, e davanti a un bourbon pensava a come “Tenera è la notte”.
Io, molto ma molto più modestamente, scrivo in un bistrot francese, Maison Gavé, in via Tasso, almeno lui era uno scrittore serio, a Palermo tra madaleine e flan parisienne, miscele etiopi e the neri. Descrivendo tragedie e commedie grottesche della politica e del costume siciliano. A volte qualcuno perfino li legge, e mi scrive il suo commento, rendendomi un prestigio inaspettato di scribacchino tardo, più che di scrittore rampante. Di Rampante c’era Calvino, chissà in quale bar ha scritto le sue “Lezioni Americane”.