Morte maresciallo Lombardo, il ricordo della figlia Rossella - QdS

Morte maresciallo Lombardo, il ricordo della figlia Rossella

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Morte maresciallo Lombardo, il ricordo della figlia Rossella

Roberto Greco  |
venerdì 04 Marzo 2022

Parla la più piccola dei figli, Rossella: "In quella Caserma, il 4 marzo 1995, è un morto un uomo che ha affrontato il suo destino, che sapeva quello che doveva succedergli e non si è tirato indietro"

Antonino Lombardo era nato a Mistretta, in provincia di Messina, il 29 marzo 1946. Si sposò nel 1973 con Fina, la ragazza con cui era fidanzato da 8 anni. L’anno successivo, nel ’74, nacque il figlio maggiore Giuseppe, poi nel ’76 Fabio e infine nel ’78 Rossella, la più piccola.

Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, nel 1980 ebbe il Comando della stazione CC di Terrasini. Da lì, da un piccolo paese immerso nel tessuto mafioso delle province di Palermo e di Trapani, il maresciallo Lombardo godeva di un punto di osservazione privilegiato sul fenomeno e sulle dinamiche mafiose tant’è che diede un contributo importante all’arresto di Totò Riina che avvenne il 15 gennaio 1993. A giugno del 1994, fu trasferito ai ROS, il Raggruppamento Operativo Speciale, organo investigativo dell’Arma dei Carabinieri con competenze sia sulla criminalità organizzata sia sul terrorismo. In poco tempo divenne personaggio chiave nel fenomeno del pentitismo, in particolare nelle relazioni con il boss Gaetano Badalamenti, in carcere negli Stati Uniti a seguito di una condanna per traffico di stupefacenti. Fu il 14 novembre del 1994 che, nel carcere di Memphis, il maresciallo incontrò Badalamenti per cercare di ottenere la sua collaborazione quindi di riportarlo in Italia per testimoniare al processo per il delitto di Mino Pecorelli al tempo in corso a Perugia e in quello a Giulio Andreotti in corso a Palermo. Badalamenti, tra le altre informazioni preliminari che diede a Lombardo, raccontò che l’avvento dei corleonesi di Totò Riina al potere sarebbe stato pilotato dalla CIA e che il boss sarebbe stato un involontario burattino nelle mani dei servizi segreti americani. Altissimo era il rilievo di Badalamenti nell’ambito del processo Andreotti perché avrebbe potuto consegnare agli inquirenti informazioni importanti e forse anche in grado di ribaltare la tesi di Tommaso Buscetta riguardo all’omicidio Pecorelli e forse sgretolare due processi ai quali sia la procura di Palermo che quella di Perugia tenevano moltissimo. Il boss, che aveva conosciuto Lombardo nei due incontri avvenuti negli USA, stabilì come condizione al suo rientro in Italia per testimoniare che fosse accompagnato dal maresciallo Lombardo. Pur facendo notare la pericolosità dell’operazione, Lombardo accettò di organizzarla e fissò la propria partenza per il 26 febbraio 1995. Poi, a seguito di una puntata della trasmissione televisiva “Tempo Reale”, condotta da Michele Santoro, in cui l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando Cascio e il sindaco di Terrasini Manlio Mele lo accusarono di collusione con la mafia, proprio la trasferta negli Stati Uniti fu annullata.

La sera del 4 marzo 1995, il suo corpo fu ritrovato senza vita all’interno della sua auto parcheggiato nella Caserma Bonsignore a Palermo. La tesi ufficiale della sua morte fu suicidio, forse troppo presto archiviato come tale. Un suicidio spiegato senza adeguati riscontri scientifici, avvalorato da quella lettera d’addio scritta da Lombardo, lettera che oggi, grazie ad una perizia richiesta del legale di fiducia dei figli, l’avv. Alessandra Delrio, sembra non essere stata scritta dalla mano del maresciallo Lombardo tant’è che la dottoressa Valentina Pierro, criminologa e grafologa forense incaricata, rappresenterebbe «un esempio d’ipotesi di scrittura artificiale. Si tratta di un processo di autocontrollo, più o meno volontario, che determina un bisogno di acquisire e costruire una grafia». Anche sulla base di questa perizia, lo scorso mese di ottobre, l’avv. Delrio ha chiesto la riapertura delle indagini sulla sua morte proprio a fronte di perizie che non furono mai né richieste né eseguite, a partire dai rilievi fotografici eseguiti all’interno della Caserma Bonsignore, dalla mancata autopsia, dalle mancate risposte scientifiche in merito ad accertamenti effettuati di tipo balistico che avrebbero potuto escludere , o quantomeno documentare con certezza, la causa suicidaria della morte di Lombardo.

Abbiamo chiesto a Rossella, la più piccola dei suoi figli, di raccontarci questa storia.

Rossella, com’era tuo padre nel privato?

“Sicuramente un padre attento, presente nonostante il lavoro che svolgeva. Cercava di essere presente sempre perché, per lui, la famiglia veniva prima di tutto. Riusciva a trovare il tempo anche per seguirci in quello che facevamo a scuola. Che sia chiaro, non era il tipico padre che ti chiedeva se avessi bisogno di soldi ma si occupava e si preoccupava di tutti noi. Uno dei ricordi più belli che ho di papà era che, a meno d’impegni improrogabili, pranzavamo sempre assieme. Durante il pranzo, spesso, faceva un gioco che ci metteva alla prova per capire quali fossero i nostri progressi scolastici. Era anche questo uno dei suoi modi per esserci vicini. Quando poteva, veniva a prenderci all’uscita dalla scuola anche all’improvviso, uscendo lo vedevo lì che mi aspettava e questo mi faceva molto felice. Nell’ultimo periodo della sua vita, quando era al ROS, era spesso fuori per servizio e capitava che non rientrasse a casa per dormire ma cercava sempre di chiamarci spesso, anche per un semplice “ciao” o per chiederci che cosa avevamo fatto. Crescendo, poi, mi resi conto che era molto protettivo nei miei confronti, come se volesse avermi sempre sott’occhio. Tra noi c’era un legame molto profondo. Lui era la luce dei miei occhi e io lo ero per lui. C’era un rapporto intenso tra noi anche se in alcuni momenti conflittuale. Da adolescente, è normale, si sente il bisogno di avere più libertà e io ero particolarmente ribelle.

Non posso non ricordare l’ultima settimana della sua vita, quando ebbe l’incarico di scortare a Milano il pentito di mafia Salvatore Cangemi. Chiamava tutti i giorni ma, spesso, non riusciva a parlare con mamma o perché era uscita per fare la spesa o perché impegnata in altre faccende che le impedivano di venire al telefono. Ricordo bene che ripeteva di aver bisogno di parlare con mamma. In queste sue richieste percepivo un suo vero bisogno di parlarle».

Erano cambiate le cose?

“Sì. Le cose cambiarono il 23 febbraio di quel 1995, quando iniziò il suo calvario. Dopo quella maledetta puntata di “Tempo Reale” (programma televisivo diretto da Michele Santoro, ndr) per lui iniziò un periodo pesante e difficile. E non mi riferisco solo alla cancellazione del viaggio negli Stati Uniti (in cui avrebbe dovuto incontrare Gaetano Badalamenti, ndr) ma credo che, per lui, il colpo più pesante sia stato l’omicidio di Francesco Brugnano, un suo confidente. Per la prima volta in vita nostra abbiamo visto la paura nei suoi occhi. Mio padre, nella sua carriera, di cose “brutte” ne aveva viste, penso solo alla guerra di mafia. Papà stava fuori di casa per giorni e giorni e, in quel periodo non c’erano i telefoni cellulari per comunicare, non avevamo modo di sapere dove fosse. Per fortuna è sempre tornato a casa e non ho mai visto quell’espressione nei suoi occhi. In quegli ultimi giorni, poi, vedevo che aveva premura, ma non ho mai saputo il perché. Faceva spesso, sempre in quell’ultimo periodo, discorsi strani alla mamma, mai fatti prima di quel momento. Una sera, in modo particolare, la abbraccio fortissimo e le disse “se succede qualcosa voi non me lo potrò mai perdonare” e, alla richiesta di mia madre di spiegarsi, si mise a piangere, aveva il terrore che potesse succederci qualcosa.

La sera del 26 febbraio, quando arrivò la telefonata che l’avvisò della morte di Brugnano, eravamo appena rientrati dopo essere stati a cena fuori. Rispose. Quando chiuse la telefonata guardò la mamma e le disse “Hanno ucciso Brugnano. Hai capito cosa significa?”. A tutti noi si gelò il sangue nelle vene. Noi fratelli eravamo giovani e, anche se papà ha sempre cercato di tenerci lontani dalle problematiche relative al suo lavoro, sentivamo che c’era qualcosa che non andava”.

A proposito di “Tempo Reale”, quando fu accusato dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando Cascio e da quello di Terrasini Manlio Mele, tu eri davanti alla televisione?

“Sì. Si sapeva che sarebbe andato in onda un servizio riguardante Terrasini con un collegamento in diretta nella piazza del paese. Papà e mamma avevano deciso di andare a guardarlo a casa di un carissimo amico di famiglia, l’avvocato Ventimiglia e si stavano preparando per uscire. Appena Orlando iniziò a parlare capii subito che si riferiva a mio padre. Corsi fuori urlando “Papà, papà, il sindaco Orlando ti sta accusando in televisione”. Mio padre rimase di sasso e mi disse “non ti preoccupare, stai tranquilla, si sistema tutto”. Andarono dai Ventimiglia e videro là la parte rimanente del programma. Verso mezzanotte rientrò con l’avvocato Ventimiglia e preparano subito la querela, scrivendola proprio su questo tavolo (indica il tavolo che è davanti a noi, ndr). Arrivarono, malgrado l’orario, moltissime telefonate, da parte di colleghi, conoscenti e tutte esprimevano solidarietà nei suoi confronti. Nonostante questo, vedevo che era smarrito, come se gli fosse caduto il mondo addosso. Si trattò di accuse pesantissime, in diretta televisiva su un programma nazionale. Sapevo, conoscendolo, che avrebbe reagito perché era in grado di potersi difendere da quelle false accuse. “Sono tranquillo – diceva – so di potermi difendere da quelle accuse”. Voglio riallacciarmi all’archiviazione del 1998 da parte della Procura di Palermo. Dalla lettura dell’ordinanza s’intende che, a loro giudizio, papà si sia ucciso in parte per vergogna e perché si era sentito abbandonato, perché si era sentito solo ma non è così. Sicuramente si è sentito solo, dopo quelle accuse, anche perché chiese aiuto ai suoi superiori ma nessun aiuto arrivò. Voglio anche ricordare che qualche giorno prima della sua morte papà ci chiese, alla mamma e a noi, se sarebbe stato un problema il trasferirsi fuori dall’Italia per un po’ di tempo perché, come disse lui, il periodo era “particolare” ed era necessario “fare calmare un po’ le acque”. Aveva capito di essere sovraesposto e che la morte di Brugano conteneva un messaggio di minaccia nei suoi confronti e di chi era vicino a lui. Aveva chiaro che era un messaggio diretto a lui e non possiamo trascurare che, proprio in quel periodo, era sulle tracce di Brusca. Il giorno dopo si recò in ufficio a Monreale e parlò con il suo diretto superiore, il tenente Felice Ierfone, chiedendogli appunto di essere trasferito lontano dalla Sicilia. La risposta di Ierfone fu secca: “Assolutamente no. Tu ci servi qui”. Al ritorno a casa, mio padre era costernato perché si chiedeva che senso aveva avuto cancellare, dopo “Tempo Reale” il programmato viaggio negli Stati Uniti proprio per evitare una sua sovra-esposizione e, quando si era trovato a chiedere supporto perché si sentiva, lui e la sua famiglia, in pericolo aveva ricevuto un secco no. Come sempre quando ti senti in pericolo, e sei un carabiniere, ti rivolgi ai tuoi superiori per chiedere aiuto e supporto invece non fu così anzi, proprio in quel periodo lo assegnarono al servizio di scorta del pentito Cangemi. È chiaro che non si è sentito tutelato. La notte prima del suo ritorno da Milano sparì il nostro cane. Anche questo fu un segnale chiaro nei suoi e nei nostri confronti. Sono questi, come sostengono, i segnali che l’hanno convinto a uccidersi? Ritengo di no. Sicuramente aveva capito di essere arrivato a un punto di non ritorno, che c‘era qualcosa che non andava, che si era sentito tradito anche da alcune persone su cui aveva fatto affidamento. Il giorno in cui rientrò da Milano, erano circa le 14, la prima cosa che disse alla mamma fu che alle 16 doveva essere a Palermo. Era il 4 marzo”.

Quindi tuo padre esce di casa per l’ultima volta e va a Palermo. Come e quando vi arriva la notizia della sua morte?

“Prima di uscire papà passò dalla mia stanza. Non disse una parola, mi guardò e mi sorrise, con un sorriso denso di malinconia. Quella fu l’ultima volta che lo vidi in vita. Passò il pomeriggio e poco prima delle 21, non avendo ancora ricevuto sue notizie, mio fratello Fabio provò a cercarlo sul suo cellulare personale ma, nonostante suonasse, non ottenne nessuna risposta. Lo trovammo strano anche perché non si era fatto sentire per tutto il pomeriggio e questa non era una sua abitudine. Mio fratello uscì e rimasi sola con mia madre. Stava crescendo in noi uno stato d’ansia e verso le 22,30 provai io a chiamarlo, ma il telefono risultava spento. Verso mezzanotte sentimmo suonare alla porta di casa. Erano le sorelle di mia madre che, con una scusa improbabile, si presentarono da noi. Mia madre affrontò la zia Lina per sapere quale fosse il vero motivo della loro visita. Solo in qual momento la zia le disse che papà aveva avuto in incidente e che era in ospedale. La paura, la rabbia, il dolore si mescolarono con la speranza che fosse vivo e quindi di poterlo rivedere, qualunque fossero le sue condizioni. Avevo lasciato porta e cancello aperto e vidi, poco dopo, arrivare quattro uomini, tre in divisa e uno in borghese che riconobbi essere un collega di papà anche lui di stanza a Terrasini che si diresse verso di me e mi abbracciò. Con lui c’erano il colonnello Cagnazzo e il generale Tornar che rimasero sulla soglia mentre il colonnello Coppola si mise davanti a mia madre che gli chiese se papà fosse morto. Coppola rispose con un secco “sì”, dopodiché girarono sui tacchi e se ne andarono”.

Veniamo a oggi, 4 marzo 2022. Qualcosa sembra essere cambiato, dopo quella girata sui tacchi. Vuoi raccontarmi?

“Finalmente ricominciamo a sentire la presenza di quella che mio padre considerava la sua seconda famiglia, l’Arma dei Carabinieri. C’è stato un lungo silenzio, durato ben 27 anni, che ci ha ferito profondamente ma oggi sembra di nuovo possibile riprendere un cammino comune. Quello che ci è più mancato in questi lunghi anni è stato il ricordo del carabiniere, del maresciallo Lombardo Antonino perché non è passato un solo giorno della nostra vita in cui non sia stato ricordato il marito, il padre. È stato particolarmente pesante il non ricordo di un carabiniere che per trentun’anni ha servito egregiamente e con fedeltà l’Arma dei Carabinieri. Mio padre, quella divisa, l’aveva cucita sulla pelle ed è stato un enorme dolore non sentire quella presenza perché, come l’abbiamo sofferta noi, l’ha sofferta lui. Più che mai, anche lui vuole questo riavvicinamento che noi stiamo apprezzando.

Oggi, finalmente, l’Arma dei Carabinieri nella persona del Comandante Generale Teo Luzi, del Comandante della Legione Sicilia generale Rosario Castello e del generale del Comandando Provinciale Giuseppe De Liso, ci sarà un ricordo del maresciallo Lombardo, in quella stessa Caserma in cui è stato ritrovato morto. Oggi 4 marzo 2022 finalmente la famiglia che mio padre ha amato, servito e onorato lo ricorda con una messa ufficiale. Celebrare questa messa in quella stessa cappella in cui ho visto il corpo senza vita di mio padre, ritengo abbia un valore simbolico altissimo e al tempo stesso non posso negare che rivivere momenti e luoghi che mi hanno segnato tutta la vita sarà una prova molto dura, ma oggi è la cosa giusta da fare. Questo gesto dell’Arma, proprio oggi e grazie alla lotta per la verità che in questi anni ha condotto mio fratello Fabio, assume un significato di grande importanza. Qualcosa si sta muovendo e finalmente il maresciallo Lombardo, il mio papà, riotterrà l’onore che gli spetta e che merita perché là, in quella Caserma, non è morto un uomo che, come qualcuno ha voluto far credere, ha provato vergogna o non ha voluto affrontare ostacoli che erano stati messi sul suo cammino. In quella Caserma, il 4 marzo 1995, è un morto un uomo che ha affrontato il suo destino, che sapeva quello che doveva succedergli e non si è tirato indietro. Oggi più che mai, ritengo che mio padre abbia sacrificato la sua vita non uccidendosi ma ergendosi a scudo di protezione nei nostri confronti, per proteggerci e penso che mio padre sia morto dicendo quello che gli ho sempre sentito dire, “Comandi, signorsì” “.

Roberto Greco

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