Cgia di Mestre: nell’Isola dove l’80% delle realtà produttive è rappresentato da Pmi più forte l’impatto dell’inflazione
PALERMO – Un aggravio di costi imponente, quello che riguarda l’impatto dell’inflazione sul Tfr da accantonare per i dipendenti delle aziende nel 2023, soprattutto per le piccole realtà imprenditoriali. E in Sicilia, dove buona parte del tessuto economico è composto da piccole e medie imprese, la stangata sarà doppiamente importante, e difficile da sostenere.
In Sicilia, secondo la Cgia, una spesa di quasi 714 milioni in più rispetto al 2022
Se in tutta Italia si parla di un extracosto di almeno 6 miliardi di euro, in Sicilia, secondo i calcoli dell’Ufficio studi della Cgia, ci saranno da spendere quasi 714 milioni di euro in più per il solo 2022. Nell’Isola, infatti, il peso delle piccole imprese sul totale è del 79,4%, per un totale di 475.843 attività economiche di piccole dimensioni. Trapani arriva addirittura all’89,3%, piazzandosi al secondo posto tra tutte le province italiane, seguita, al terzo posto, da Agrigento, all’88,7%.
Al dodicesimo posto troviamo Messina, con una percentuale di piccole imprese sul totale dell’82,7%. Ragusa arriva al 23esimo posto, con il 79,9%; al 31esimo posto Palermo con il 73,4%, e subito dopo Siracusa, al 76,6%. Enna, al 38esimo posto, al 74,8% di piccole imprese sul territorio, registra numeri di poco più alti di Catania, al 45esimo posto tra le province italiane, al 76,8%, e in ultimo Caltanissetta, al 49esimo posto, al 72,2%. Se si guarda ad una prospettiva nazionale, la situazione più critica interesserà il Mezzogiorno, con Vibo Valentia al primo posto, dove il 91% delle imprese con dipendenti presenti in provincia ha meno di 50 addetti. Dopo Trapani e Agrigento, seguono Nuoro (88,3%), Campobasso (86,1%), Prato (85,7%), Grosseto (85,6%), Cosenza (85,1%), Imperia (84,7%) e Barletta-Andria-Trani (84,3%).
Il costo che ogni impresa dovrà sopportare
Se si scende ad analizzare il costo che ogni impresa dovrà sopportare, l’ufficio studi della Cgia ha ipotizzato che, per un lavoratore che timbra il cartellino da 5 anni presso la stessa azienda con meno di 50 addetti, la rivalutazione del Tfr provocherà nel bilancio 2023 un incremento dei costi pari a 593 euro rispetto a quanto è stato riconosciuto al proprio dipendente sempre con questa operazione nel periodo che va dalla sua assunzione fino al 2020. Se, invece, l’anzianità lavorativa è di 10 anni, l’aggravio è stato di 1.375 euro; con 15 anni di servizio, ancora, l’incremento è di 2.003 euro. Se, infine, è da 20 anni che il dipendente varca ogni giorno le porte dell’azienda, l’extracosto per quest’ultima ha toccato i 2.594 euro. È in qualche modo positivo che la grande maggioranza dei 6,5 milioni di dipendenti che lavorano nelle imprese con meno di 50 addetti “lasciano” il Tfr in azienda. Ed è sicuramente un vantaggio per l’imprenditore.
Lasciare il Tfr in azienda: scelta giusta o sbagliata?
Il Tfr è, infatti, una forma di salario differito; se il dipendente decide di “lasciarlo” in azienda, le conseguenze finanziare possono essere anche negative, così come è successo quest’anno. “Tuttavia – scrivono dalla Cgia – è comunque auspicabile per l’impresa che il dipendente mantenga questa decisione. Infatti, per fronteggiare la mancanza di liquidità che da sempre contraddistingue la quotidianità di queste realtà avere a disposizione delle risorse aggiuntive, sebbene non siano ‘proprie’, è importante. Soldi che, comunque, l’imprenditore ha in ‘prestito’ e deve almeno in parte corrispondere al proprio dipendente quando quest’ultimo durante il periodo lavorativo lo richiede o interamente al termine del rapporto di lavoro”.
È possibile, infatti, richiedere una quota del Tfr anche prima della conclusione del rapporto di lavoro, in presenza di condizioni straordinarie quali l’acquisto della prima casa, spese legate ai figli o problemi di salute.