Si continua a non spendere: -8% rispetto a otto anni fa - QdS

Si continua a non spendere: -8% rispetto a otto anni fa

redazione

Si continua a non spendere: -8% rispetto a otto anni fa

venerdì 24 Maggio 2019

Rapporto di Confesercenti e Cer su commercio e consumi degli italiani

ROMA – I consumatori italiani oggi consumano meno di otto anni fa. Nel 2018 la spesa media annuale in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – delle famiglie italiane è stata di 28.251 euro, inferiore di 2.530 euro ai livelli del 2011 (-8,2%). Complessivamente, il mercato interno italiano ha perso circa 60 miliardi di spesa negli ultimi otto anni, e il bilancio probabilmente continuerà a peggiorare. è quanto emerge dal rapporto di Confesercenti e Cer su commercio e consumi.

Si spende di meno praticamente su tutto – ad eccezione di istruzione e sanità – ma la spending review delle famiglie non ha colpito con la stessa forza tutte le voci. Tra le spese più rappresentative nei bilanci domestici, sono state tagliate soprattutto le spese per l’abitazione, -1.100 euro circa all’anno per famiglia rispetto al 2011. Tagli importanti anche su abbigliamento (-280 euro), ricreazione e spettacoli (-182 euro), comunicazioni (-164 euro), alimentari (-322 euro).

In proporzione, però, è la voce comunicazioni ad aver perso di più: la flessione della spesa è del 19%. Gli italiani spendono di meno anche per gli smartphone, un tempo passione nazionale. Impressionante anche la riduzione del budget impegnato sugli alimentari: una voce di consumo che un tempo si riteneva una ‘spesa incomprimibile’, e che invece ha perso il 6%. Crescono invece le spese per la sanità (+12,1%) e l’istruzione (+24,7%). Nell’intero panorama nazionale solo le famiglie della Basilicata, infatti, hanno visto un piccolo progresso – circa 500 euro di spesa media annuale in più – rispetto al 2011. Le restanti 19 regioni hanno registrato cali, in 10 casi superiori ai 3.000 euro a famiglia, in termini reali. Tra questo ed il prossimo anno, la spesa delle famiglie dovrebbe registrare un lieve recupero, anche grazie alle misure espansive adottate nell’ultima legge di Bilancio: al 2020 si stima una spesa media annuale in termini reali di 28.533 euro, con un incremento annuo di poco più di 140 euro. La previsione, però, non incorpora il possibile aumento delle aliquote Iva.

L’aumento dell’Iva annullerebbe tutti i progressi, portando ad una riduzione di 8,1 miliardi della spesa delle famiglie, pari a 311 euro di minori consumi a testa. L’impatto avrebbe un effetto devastante anche sul tessuto delle imprese del commercio, già in sofferenza. La frenata dei consumi che seguirebbe l’incremento delle aliquote Iva porterebbe, secondo le stime, alla scomparsa di altri 9mila negozi circa da qui al 2020.

Il reddito di cittadinanza e gli altri interventi espansivi contenuti nella manovra, potrebbero portare a un aumento della spesa delle famiglie di 7 miliardi in tre anni (2019-2021). L’effetto della misura è più contenuto nel 2019, più incisivo nel 2020-2021: al netto dell’inflazione, infatti, la spesa delle famiglie è prevista aumentare di un miliardo nel 2019 e di 6 miliardi nel biennio 2020-21.

La riduzione dei consumi da parte delle famiglie ha avuto un impatto molto forte sulle imprese della distribuzione commerciale. Tra il 2011 e il 2018 sono spariti oltre 32mila negozi in sede fissa specializzati in prodotti non alimentari. A sostituire le botteghe, sempre di più, ristoranti e web.

I pubblici esercizi e le altre imprese della ristorazione negli ultimi 8 anni sono aumentati del 10,1%, pari a quasi 31mila attività in più. La crisi dei negozi ha colpito in maniera diversa le differenti tipologie di attività commerciale. A pagare più di tutti è l’abbigliamento, che lascia sul campo oltre 13mila saracinesche abbassate.

Il tasso di sopravvivenza delle imprese del commercio è via via peggiorato nel tempo. Oggi, delle imprese nate 3 anni fa, ne sopravvive solo il 49%. Secondo Confesercenti “la via maestra per rilanciare i consumi delle famiglie è l’occupazione. Abbiamo bisogno di mettere più soldi nelle tasche di chi lavora. Per questo siamo però convinti che quella del salario minimo sia la strada sbagliata da percorrere. Dobbiamo far ripartire la contrattazione, non cancellarla: diciamo dunque sì, con convinzione, alla proposta di una flat tax sugli aumenti salariali al di sopra dei minimi contrattuali”.

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