Stato-mafia, Mannino vittima dell'impegno contro clan - QdS

Stato-mafia, Mannino vittima dell’impegno contro clan

Stato-mafia, Mannino vittima dell’impegno contro clan

martedì 14 Gennaio 2020

La Corte d'appello di Palermo spazza via ogni ombra dalla figura dell'ex ministro democristiano. Smontato uno dei cardini dell'accusa: Borsellino non riteneva anomalo dialogo con Ciancimino e sapeva del dialogo avviato dai Carabinieri del Ros

“Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991”.

Lo scrivono i giudici della prima sezione della corte d’appello di Palermo, presieduta da Adriana Piras, nelle motivazioni della sentenza con cui il collegio ha assolto l’ex ministro Dc Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato.

L’ex politico, assolto anche in primo grado, era sotto processo in uno stralcio del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia

Smantellata la tesi dell’accusa

La corte ha smantellato la tesi dell’accusa secondo la quale Mannino, minacciato da Cosa nostra per non aver mantenuto i patti, avrebbe avviato, grazie ai suoi rapporti con i carabinieri del Ros, una trattativa finalizzata a dare concessioni ai clan in cambio di una assicurazione sulla vita.

“Anche alla stregua dell’ approfondita rinnovazione dell’istruzione dibattimentale esperita dinanzi a questa Corte, non solo non è possibile ribaltare al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna ma anzi, in questa sede è stata ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli”.

“Tanto – prosegue la corte nelle motivazioni alla sentenza – a prescindere da una valutazione più complessiva, sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica – della cosiddetta ‘trattativa Stato – mafia’, valutazione che si è appalesata del tutto superflua rispetto alle concrete e troncanti risultanze relative alla specifica posizione del Mannino e che, dunque, è insuscettibile di approfondimento in questa sede”.

Borsellino non riteneva anomalo dialogo con Ciancimino

Si legge ancora nella sentenza che “Appare altamente probabile che gli alti ufficiali del Ros avessero informato della loro iniziativa anche il giudice Borsellino, che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto ‘mafia – appalti’ nel luglio 1992, poco prima della sua uccisione”.

Paolo Borsellino sapeva del dialogo avviato dai carabinieri del Ros Mori e De Donno perché erano stati loro stessi a dirglielo.

Smontato uno dei cardini del processo sulla “Trattativa”

Smontano uno dei cardini del processo sulla cosiddetta trattativa Stato mafia i giudici della corte d’appello che oggi hanno depositato le motivazioni della sentenza con cui nei mesi scorsi hanno assolto dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato l’ex ministro Dc Calogero Mannino. Mannino, assolto in primo e secondo grado, è stato processato separatamente.

I suoi coimputati – tra loro anche Mori e De Donno – sono stati condannati a pene pesantissime dalla corte d’assise e ora sono in giudizio in appello. La corte d’assise scrisse che tra i motivi della morte di Borsellino c’era proprio la sua avversione alla trattativa avviata dai carabinieri con la mafia tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

La corte d’appello sostiene il contrario.

Gli infiltrati e la strategia stragista

Scrivono i giudici d’appello: “Quando il giudice (Borsellino ndr) ne era stato informato dalla dottoressa Ferraro non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato, rispondendo alla dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui. Se, dunque, si trattava di iniziativa discussa dagli alti ufficiali del Ros col giudice o, comunque, prossima all’asseverazione di Borsellino che già ne aveva preso atto, senza stupirsene, a fine giugno 1992 parlando con la Ferraro, l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione del Mannino per avere salva la vita, diventa una remota illazione, priva di qualsivoglia giustificazione logica, in tale ricostruito contesto”.

“Borsellino, informato dalla Ferraro dell’iniziativa del Ros, – prosegue la corte – non se ne era affatto stupito e men che mai scandalizzato, dicendole che andava tutto bene e che se ne sarebbe occupato. Tale ultima reazione legittima, fondatamente, la conclusione di questa Corte che non solo Borsellino fosse già stato informato dell’iniziativa intrapresa dagli stessi ufficiali già prima che gliene parlasse la Ferraro ma, soprattutto, non essendosi mostrato per nulla turbato o preoccupato, che il magistrato non l’avesse valutata come un’operazione anomala, con particolari finalità o istigazioni ad opera di personalità politiche occulte, bensì come una normale (per il Ros) attività di infiltrazione sotto copertura, finalizzata alla cattura dei boss di ‘cosa nostra’ che in quel momento portavano avanti la strategia stragista”.

Concessioni su 41 bis scelta politica

La Corte d’appello di Palermo ha smontato anche la tesi che alla base della trattativa tra lo Stato e la mafia ci sarebbero state concessioni ai boss detenuti al 41 bis.

“Non è possibile affermare, ora per allora ed oltre ogni ragionevole dubbio, che il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, abbia avuto un rilievo significativo per il sodalizio mafioso, tale da potersi qualificare come una concessione illogica ed ingiustificata dello Stato a ‘cosa nostra’, frutto di un patto scellerato avvenuto un anno prima e non, piuttosto, come una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi”.

Dietro alla revoca del regime carcerario duro per alcuni detenuti non ci sarebbe stata nessuna concessione, dunque, determinata dalla trattativa, ma solo una scelta politica.

La corte inquadra l’episodio nella “necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno delle carceri – a tratti, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità – già avviata col precedente capo del D.A.P., Amato, mediante la nota del 6 marzo 1993, distensione che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità organizzata, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione essi siano”.

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