Itinerari d'autore

Tangeri, Paul Bowles e…“Il tè nel deserto”

Tangeri sembra un grande nido di case bianche. Da lontano, quando la raggiungi dal mare, appare invitante, fascinosa, intima, misteriosa. Guarda verso la Spagna ed è posta tra Africa ed Europa, senza però appartenere a nessuno dei due continenti.

La ricordo come una città ventosa, situata su un promontorio tra il Mediterraneo e l’Atlantico: se il vento non soffia da una parte, soffia dall’altra. Ha ospitato personaggi illustri e viaggiatori di mezzo mondo, ma oggi, purtroppo, è ridotta all’ombra di sé stessa. L’avevo visitata una ventina d’anni addietro, per intervistare lo scrittore americano Paul Bowles, forse l’ultimo dei grandi scrittori gay della Beat Generation rimasto a Tangeri. Con lui trascorsi un bel pomeriggio nel Café de Paris a bere il tipico tè alla menta parlando di letteratura.

Era una primavera soleggiata e piacevole. Bowls era già anziano ma lucido, buono, accogliente. Cortese, anche se un po’ formale. Mi ricordava James Purdy, altro scrittore americano che avevo intervistato a New York: stessa generazione, stessi eleganti modi di fare. Bowles mi parlò di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, di Tennessee Williams e del film che Bernardo Bertolucci allora stava traendo dal suo romanzo, “The Sheltering Sky”, noto in Italia con il titolo “Il tè nel deserto”. Un altro giorno andai a trovarlo a casa, un appartamentino in un caseggiato popolare, tutto bianco. Teneva corte lì. C’erano sempre persone in piedi che attendevano il loro turno. La sua porta era sempre aperta. Garbato, paziente, gentile.

Ricordo che a Tangeri allora, c’era una piccola libreria internazionale ch’era un punto di riferimento per scrittori e viaggiatori. In quel periodo, nel Café de Paris trascorsi lunghe ore. Era sempre pieno di gente affascinante e si parlava francese, inglese, spagnolo, arabo. Il tempo nel Café de Paris pareva si fermasse. Amavo osservare, incantato, il flusso di umanità che scorreva davanti ai miei occhi, denso e tumultuoso come un fiume in piena. Non mi stancavo mai di guardare la gente che passava: un autentico arcobaleno di persone. Solo quando cominciava a imbrunire mi accorgevo delle ore ch’erano passate. Allora ricominciavo a sentire il vocio dei clienti intorno a me, a vedere il via vai della gente che entrava e usciva. I camerieri che portavano il tè alla menta ai tavoli, ed eravamo immersi nel profumo intenso dei tanti mazzi di menta fresca. Ricordo si faceva sera quasi subito e la temperatura scendeva di parecchio. Dal mio tavolino, in un angolo del caffè e quasi attaccato alla vetrina appannata, vedevo passare uomini alti, longilinei, come nelle sculture di Alberto Giacometti. Indossavano le tradizionali tuniche pesanti, lunghe fino a piedi, color della terra, ed erano incappucciati come monaci, nelle mani borse piene di menta o di melograni che portavano a casa.

Ancor oggi la menta in Marocco si vede ovunque e il suo profumo è sempre nell’aria. Contadini scendono con gli asini dai campi e si accovacciano in terra, circondati da mazzi di menta alta più di un metro.

La posizione geografica di Tangeri, tra l’Africa e l’Europa, fu anche la sua fortuna. La città ha una storia antica e ricca: fu fenicia, cartaginese, romana, vandala, bizantina, araba, portoghese, spagnola e anche britannica.

Negli anni Venti divenne Porto Libero Internazionale, governata non dal Marocco ma da varie nazioni. E presto fu nota come una città trasgressiva, libertina. Giunsero artisti, scrittori, musicisti da tutto il mondo, molti dei quali gay, protagonisti sempre dei grandi fermenti culturali: ad Atene e Roma nell’antichità, a Firenze nel Rinascimento, a Parigi negli Anni Venti, a New York negli Anni Settanta.

La città, con quel grande porto, il maggiore del Marocco, era dinamica, vibrante, colorata, colta. Un po’ come lo erano diventate Casablanca, Alessandria d’Egitto, Shanghai e l’Avana a Cuba. Anch’essi Porti Liberi. Agli intellettuali si mescolavano portuali, commercianti di seta, prostitute e loschi uomini d’affari.

A Tangeri si era formata inoltre una grossa e dinamica comunità italiana con ristoranti, scuole, chiese, un ospedale e perfino un liceo. Ancor oggi lo Stato italiano è proprietario di un ex palazzo reale comprato da un impoverito sultano. Oggi ospita una trattoria dai tovagliati a quadretti bianchi e rossi.

Fino a vent’anni fa, insomma, Tangeri aveva ancora un fascino, un’anima. Ma ora ho ritrovato soltanto le ombre del passato. C’erano, sì, le stradine della città vecchia, le piccole moschee, i cortili con gli aranci, ma anche l’albergo in cui alloggiavo, con tutte le foto in bianco e nero di personaggi come Churchill, Yves Saint Laurent e Allen Ginsberg che frequentavano Tangeri, dava tristezza.

Camminando per le stradine strette ero infastidito da gruppetti di ragazzini che parlavano tutte le lingue – anche il cinese – proponendo di far da guida, cambiare denaro, vendere souvenir o sesso. E mi irritava vedere anche i gruppi di turisti mordi e fuggi che gironzolavano nei suk. Tangeri non era più la stessa, la sua anima si era spenta. Che tristezza.