Coronavirus, i numeri su patologie pregresse e morti. Terapia domiciliare, come curarsi in casa - QdS

Coronavirus, i numeri su patologie pregresse e morti. Terapia domiciliare, come curarsi in casa

Serena Giovanna Grasso

Coronavirus, i numeri su patologie pregresse e morti. Terapia domiciliare, come curarsi in casa

martedì 01 Dicembre 2020

Secondo il report dell’Istituto Superiore della Sanità sulle caratteristiche dei pazienti positivi al virus e deceduti tra settembre e novembre solo l'un per cento non aveva patologie pregresse. E nei due terzi del campione esaminato, il paziente deceduto ne aveva almeno tre

Ogni giorno in trepidante attesa aspettiamo la pubblicazione ad opera del Comitato tecnico scientifico dei dati sui nuovi contagi da Covid-19, occupazione delle terapie intensive e numero di soggetti guariti.
Questi dati ci aiutano a capire l’andamento della curva epidemiologica, l’efficacia delle misure restrittive e orientano le scelte sul futuro. All’interno del bollettino emesso quotidianamente dal Cts sono contenuti anche i dati relativi al numero di deceduti (complessivo e l’incremento rispetto al giorno precedente).

Cosa dicono i numeri, oltre il bollettino del Cts

Proprio in riferimento al numero di morti da coronavirus cosa sappiamo oltre ai numeri? Secondo quanto contenuto all’interno del bollettino “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da Sars-Cov-2 in Italia – Dati al 18 novembre 2020” dell’Istituto superiore di sanità, ammonta al 3,3% l’incidenza di deceduti senza patologie pregresse dall’inizio della pandemia a novembre. Questa percentuale è stata ottenuta dall’analisi di un campione pari a 5.421 deceduti (un campione più limitato rispetto a quello complessivamente analizzato per sviluppare il rapporto in questione e che è pari a 41.737 pazienti deceduti e positivi all’infezione da Sars Cov-2 in Italia) per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche: nel dettaglio del campione di riferimento si rileva che il numero di soggetti deceduti senza patologie pregresse è stato pari a 177, con un’incidenza tre volte superiore negli uomini (45 donne, a fronte di 132 uomini).
Addentrandoci maggiormente nel dettaglio, occorre specificare che nel trimestre settembre-novembre tale incidenza scende addirittura all’1%.
La percentuale contenuta di mortalità da Covid-19 tra i soggetti senza patologie pregresse non deve indurci a sminuire la gravità della situazione né a scoraggiare il rispetto delle norme, innanzitutto perché interrompere la catena del contagio tutela i soggetti con comorbidità maggiormente suscettibili al rischio di contrarre l’infezione e di sviluppare complicanze fatali, ma anche perché seppur basso è pur sempre presente il rischio di mortalità anche nei soggetti sani (prova ne è il decesso del ventinovenne senza patologie pregresse verificatosi negli scorsi giorni a Catania, una delle vittime più giovani di questa seconda ondata). Quindi, si raccomanda sempre e comunque di seguire con doverosa attenzione le direttive e le misure preventive.

Iss, cosa accomuna i pazienti positivi deceduti
Ritornando ai dati diffusi dall’Istituto superiore di sanità, aggiornati al 18 novembre e che, ripetiamo, fanno riferimento ad un campione di 41.737 pazienti deceduti e positivi al Covid-19, è possibile tracciare una sorta di identikit, chiamiamolo così, del paziente deceduto: nei due terzi del campione esaminato si tratta di un soggetto con almeno tre patologie a carico (3.539, di cui 1.499 donne e 2.040 uomini, pari al 65,3% delle 5.421 cartelle cliniche analizzate). Le patologie preesistenti maggiormente diffuse sono ipertensione arteriosa (3.572), diabete mellito di tipo 2 (1.595), cardiopatia ischemica (1.497) e fibrillazione atriale (1.310). In termini complessivi, risultano maggiormente colpiti gli uomini: infatti, sul campione di 5.421 deceduti in 3.262 sono uomini (pari al 60,2% del totale).
Nel 90,7% delle diagnosi di ricovero sul campione complessivo erano menzionate condizioni (come polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (come febbre, dispnea, tosse) compatibili con Sars-Cov-2. Mentre rappresentano ben un caso su dieci le diagnosi di ricovero non correlate all’infezione (470 casi, pari al 9,3%): in particolare, in 69 casi la diagnosi di ricovero riguardava esclusivamente patologie neoplastiche, in 158 casi patologie cardiovascolari (come infarto miocardico acuto, scompenso cardiaco, ictus), in 63 casi patologie gastrointestinali (come colecistite, perforazione intestinale, occlusione intestinale, cirrosi) e in 180 casi altre patologie.

Iss e Istat, con patologie pregresse Covid-19 responsabile della morte in 9 casi su 10

Sebbene la quasi totalità delle persone morte a causa dell’infezione da Sars-Cov-2 avesse almeno un’altra patologia a carico, occorre precisare che in nove casi su dieci il Covid-19 rappresenta la causa di decesso. Infatti, in base all’analisi condotta sulle schede di decesso dall’Istituto nazionale di statistica congiuntamente con l’Istituto superiore di sanità, il Covid-19 è a causa direttamente responsabile della morte nell’89% dei casi: in questi casi, la morte è direttamente causata dall’infezione e dalle sue complicanze, anche se spesso sovrapposto ad altre malattie preesistenti. Dunque, è presumibile che il decesso non si sarebbe verificato se l’infezione da Sars-Cov-2 non fosse intervenuta.Nel restante 11% dei casi il decesso si può ritenere dovuto ad un’altra malattia o circostanza esterna: in ogni caso, il Covid-19 è una causa che può aver contribuito al decesso accelerando processi morbosi già in atto, aggravando l’esito di malattie preesistenti o limitando la possibilità di cure.

Virologi e sovraesposizione mediatica come la Scienza ha perso credibilità

La pandemia ha portato allo sviluppo dell’infodemia, ovvero la smodata quantità di notizie che ormai da nove mesi a questa parte ci travolge, informazioni molto spesso non vagliate con accuratezza, che di conseguenza rendono difficile l’orientamento a causa della difficoltà nell’individuazione di fonti attendibili. Risultano esemplificativi del problema i dibattiti controversi sui temi “scuola” e “vaccino”.

Per quanto riguarda la scuola, da una parte c’è chi sostiene l’importanza della didattica in presenza, soprattutto a fronte di scuole aperte in tutta Europa, come dichiarato da Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova e membro dell’unità di crisi Covid-19 della Liguria. Dall’altra parte c’è chi pone l’accento sui rischi di creare assembramenti e quindi di aumentare il pericolo di diffusione di Sars-Cov-2, come sostenuto da Massimo Andreoni, direttore scientifico della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali). In entrambi i casi, vediamo l’espressione di pareri da parte di personaggi di una certa notorietà ed influenza, che però si pongono su posizioni diametralmente contrapposte.

Il medesimo scenario si configura in relazione al tema vaccini. Proprio a tal proposito si è scatenato un vero e proprio vespaio mediatico attorno alle dichiarazioni del virologo Andrea Crisanti: infatti, il noto divulgatore scientifico ha affermato di non essere disposto a sottoporsi a vaccinazione a gennaio senza validi dati, “normalmente ci vogliono dai cinque agli otto anni per produrre un vaccino – ha dichiarato – per questo vorrei essere sicuro che sia stato opportunamente testato”. Un’affermazione del genere risulta certamente clamorosa, a maggior ragione del fatto che non proviene da un no-vax.
Particolarmente dure sono state le risposte provenienti dalla comunità scientifica. Franco Locatelli, presidente del consiglio superiore di sanità, ha dichiarato: “I profili di sicurezza dei vaccini che verranno resi commercialmente disponibili hanno seguito e seguiranno tutta una serie di step ineludibili dalle agenzie regolatorie più importanti”.

Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, ha affermato: “È vero che è andato tutto molto veloce, ma è anche la prima volta che sono stati messi così tanti finanziamenti ed è la prima volta che vengono trovati dei volontari per la sperimentazione in un tempo così rapido. È la prima volta che il mondo si confronta con qualcosa di nuovo. Il vaccino sarà sicuro. Quando arriverà, e io rientrerò nelle categorie che possono farlo, lo farò subito”.

Terapia domiciliare, ecco come ci si cura a casa

Non esistono trattamenti specifici per le infezioni causate dai coronavirus e non sono disponibili, al momento, vaccini per proteggersi dal virus.
“Riguardo il nuovo coronavirus Sars-CoV-2 – si legge sul sito dell’Istituto superiore di Sanità – non esistono al momento terapie specifiche, vengono curati i sintomi della malattia (così detta terapia di supporto) in modo da favorire la guarigione, ad esempio fornendo supporto respiratorio”.

L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) fornisce sul proprio sito informazioni sui farmaci utilizzati al di fuori delle sperimentazioni cliniche, come quelli commercializzati per altre indicazioni che vengono resi disponibili ai pazienti, pur in assenza di indicazione terapeutica specifica per il Covid-19, sulla base di evidenze scientifiche spesso piuttosto limitate.
Il Comitato Tecnico Scientifico della Protezione civile ha varato qualche giorno fa le linee guida nazionali per la terapia domiciliare dei pazienti Covid-19. Il documento non è ancora nella sua versione definitiva (dovrà passare al vaglio di medici di famiglia e Usca) ma si fonda su tre punti fermi rappresentati da: cortisone, eparina e antibiotici.
La febbre va innanzitutto trattata con il paracetamolo. Il cortisone a domicilio “può essere considerato in quei pazienti in cui il quadro clinico non migliora entro le 72 ore, soprattutto in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici”.

Gli antibiotici vanno somministrati solo se c’è febbre per oltre 72 ore, cioè nel momento in cui il sospetto è che vi sia una infezione batterica da contrastare.
L’uso dell’eparina, invece, “non è raccomandato nei soggetti non ospedalizzati e non allettati a causa dell’episodio infettivo”.

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