Lo Stato è più forte non quando dimostra sopraffazione ma attraverso il rispetto, fornendo spazi e servizi che non ledano la dignità umana. In questo momento pesa più che mai l’assenza e l’inadeguatezza dello Stato nel gestire un carcere moderno.
Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, è nata alla fine degli anni ottanta nel solco della omonima rivista contro l’emergenza promossa, tra gli altri, da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda. Il Presidente di Antigone Sicilia è Pino Apprendi e lo abbiamo incontrato pochi giorni dopo le sue visite presso gli istituti penitenziari di Caltanissetta, Sciacca e Trapani per fare il punto sulla situazione carceraria nell’isola.
Io ho sempre avuto del carcere, in generale, una valutazione che, da 1 a 10, difficilmente superava il 5. Devo però dire che questa opportunità di andare a visitare le carceri, o meglio, gli istituti penitenziari di Caltanissetta, Sciacca e Trapani, mi ha restituito una visione particolarmente negativa. Diciamo che il nostro obiettivo era verificare le condizioni carcerarie pre e post Covid. Sinceramente non pensavo di trovare una situazione migliore ma, nonostante tutto, non mi aspettavo un così grande abbassamento della qualità complessiva del sistema perché si sono di nuovo aggiunte nuove problematiche che, prima della pandemia, pensavo fossero superate come ad esempio quella della mancanza di volontari all’interno delle strutture. È evidente che stiamo parlando d’istituti insiti nelle piccole province della Sicilia, non stiamo parlando della situazione palermitana, ma sono rimasto sorpreso che a Trapani o a Sciacca o a Caltanissetta, per esempio, sia difficile trovare volontari che siano disponibili a operare all’interno delle strutture carcerarie e, ritengo, questo non sia solo un effetto collaterale della pandemia ma che, purtroppo, si sia in presenza di un vero e proprio degrado culturale.
Negli istituti che abbiamo visitato, devo dire, non si sono verificate criticità eccessive, a proposito della pandemia, anche grazie all’azione puntale dei dirigenti delle strutture ma purtroppo emerge in maniera evidente l’indisponibilità di medici e infermieri. È evidente che si tratta di servizi essenziali alla persona, dei quali non si può fare a meno, e soprattutto di diritti che alle persone vengono così negati.
È stata la prima volta che visitavo il carcere di Sciacca. Questo istituto, come quello di Caltanissetta, ha palesi problematiche strutturali e questo evidenzia l’assenza dello Stato. Parliamo, in entrambi in casi, d’immobili che risalgono ai primi anni del secolo scorso con vincoli da parte della Sovraintendenza, con evidenti problematiche di ammodernamento e di adeguamento quindi inadatti a ospitare persone. Ti basti pensare che, all’interno della struttura di Caltanissetta, le sale destinate ai colloqui, in effetti, non sono due sale nel senso più tradizionale del termine ma due container. Non sempre, nelle strutture carcerarie, c’è un impianto di riscaldamento adeguato e se l’edificio “soffre” d’infiltrazioni di umidità la situazione ambientale e sanitaria peggiora. Come dicevo prima a questo si somma la scarsezza di personale medico e infermieristico, l’impossibilità di poter effettuare, in loco, visite specialistiche se non con tempi di prenotazione lunghi. So perfettamente che questo succede anche al cittadino comune ma, mentre per gli ospiti delle strutture carcerarie non esiste nessuna alternativa, per il cittadino, in caso di urgenza, è sempre possibile rivolgersi a specialisti non convenzionati.
Di fatto, la situazione complessiva è peggiorata a causa delle evidente latitanza dello Stato che non garantisce il diritto alla salute ai detenuti. La normativa è cambiata, lo Stato ha la competenza strutturale dell’istituto mentre è competenza regionale quella che riguarda l’assistenza sanitaria ma, di fatto, la Regione rappresenta lo Stato sul territorio e possiamo dire che è inadempiente ai suoi compiti.
Assolutamente sì. Possiamo dire che i detenuti non hanno voce? Sì. Possiamo dire che quando oltrepassi il cancello automatico dell’istituto perdi parte dei diritti garantiti dalla Costituzione? Sì. Possiamo dire, inoltre, che in fin dei conti non sei più considerato “persona”? Ancora una volta, la risposta è sì.
La situazione viene, per così dire, salvata solo dalla sensibilità individuale del personale ma, sia la Polizia Penitenziaria sia gli psicologi, gli assistenti sociali e finanche lo stesso Direttore, lavorano troppo spesso senza gli strumenti necessari per affrontare il quotidiano. Non è un caso che, più volte, la Corte Europea ci abbia ripreso e sanzionato.
Capitolo a parte, invece, è quello relativo alla popolazione carceraria extra-comunitaria che rappresenta circa il 18%. Queste persone vivono in una situazione “più disgraziata” rispetto ai detenuti italiani perché non ricevono visite, non hanno un supporto familiare esterno, parlano un’altra lingua e, ancor più grave, non hanno i mediatori culturali. Questo si va a scontrare con la realtà degli agenti di Polizia Penitenziaria che, spesso, non capiscono la lingua e quindi non sono in grado di rispondere alle più banali esigenze.
Ci scontriamo con il costante fenomeno di sovraffollamento e le misure alternative al carcere rappresentano non solo una possibilità di “alleggerimento” ma, altro fatto importante, la possibilità di evitare che il periodo di detenzione diventi la cosiddetta “scuola di vita”, la palestra per poter, una volta usciti, continuare a delinquere. Perché non è possibile pensare, concretamente, a un alleggerimento della permanenza carceraria creando pene alternative? All’interno delle strutture, ad esempio, abbiamo circa il 30% della popolazione carceraria che è composto da tossicodipendenti e da piccoli spacciatori. Davvero pensiamo che la possibile legalizzazione della cannabis, oltre a togliere economie alla criminalità organizzata, non possa anche ridurre la popolazione carceraria?
Si è trattato d’interventi a macchia di leopardo. Sono gli uomini che portano avanti i progetti. In alcune strutture ci sono direttori “illuminati” in altre no.
Durante la pandemia molti istituti hanno interrotto la formazione in presenza utilizzando la cosiddetta DAD ma altri la hanno sospesa e basta, sia quella di alfabetizzazione sia quella di specializzazione ai mestieri. Alcuni detenuti che dovevano conseguire la specializzazione triennale o quinquennale sono stati costretti a “perdere” un anno formativo e, quindi, a rinviare il loro percorso.
Dentro le strutture ho trovato un particolare interesse da parte degli ospiti, in maniera specifica, nei confronti della formazione professionale riguardante il settore alberghiero. Lo vedono come un possibile sbocco lavorativo che, dal punto di vista del piano di studi, è alla loro portata.
È un dato che dobbiamo avere sempre presente. Come Antigone ci occupiamo dei diritti dei detenuti, per ruolo istituzionale. Mi rendo conto, però, della difficoltà dei direttori, degli operatori e della Polizia Penitenziaria. Rappresentano l’ultimo miglio dell’autostrada della giustizia ed è quello più debole. È su in questo “ultimo miglio” che si scatenano tutte le tensioni come la mancanza del colloquio o della visita medica, il medicinale che non arriva, la risposta alle varie istanze che tarda.
È evidente che l’agente di Polizia Penitenziaria, che vive nel carcere otto ore al giorno, spesso con il turno di notte, in solitaria, è un elemento fragile che ha passato gran parte della sua vita in carcere spesso in una situazione di conflitto con il detenuto, che ha mille problemi personali che scarica sul primo che incontra trasformando, inevitabilmente, il rapporto in conflitto, purtroppo anche fisico. Siamo in presenza di piante organiche non sempre adeguate e sotto dimensionate che costringono gli agenti di Polizia Penitenziaria a lavorare in condizioni appena sufficienti. In questo particolare momento in Sicilia, inoltre, mancano diversi direttori titolari delle strutture. Ad esempio il direttore di Trapani è anche il direttore dell’Ucciardone (l’istituto penitenziario di Palermo, ndr), quello di Caltanissetta segue anche Catania, quello di Sciacca è anche dirigente all’Ucciardone. Questo limita moltissimo la progettualità e la capacità di lavorare su interventi di lungo periodo e di grande respiro. Purtroppo, ancora una volta, dobbiamo evidenziare grande disinteresse dello Stato nei confronti del “problema carceri” e quindi della popolazione carceraria. Gli stessi organi di stampa non danno la visibilità necessaria a quanto succede nelle carceri se non quando si esaltano i conflitti e si trasformano in episodi violenti.
Se l’attività trattamentale funziona bene all’interno della struttura e se ne godono subito i vantaggi, soprattutto è fondamentale nel momento in cui il detenuto riacquista la libertà perché il carcere deve essere rieducativo, non peggiorativo della propria condizione.
Dobbiamo avere la capacità di distinguere tra il sentimento personale e le leggi. Se la legge prevede che ci sia una condanna comminata da un tribunale, si tratta di una condanna che prescinde dalla coscienza, che è l’applicazione di una norma. La legge va rispettata, non devono esistere tentennamenti poi, purtroppo, il populismo è sempre in agguato e troppe persone cadono nella trappola. È necessario piuttosto lavorare per cambiare una legislazione che può rivelarsi inadeguata, non più coerente con gli obiettivi di questa società ma i diritti umani devono essere un caposaldo sul quale non si può mediare verso il basso.
Prossimamente visiteremo gli istituti “Bicocca” e “Piazza Lanza” a Catania e quello di Caltagirone dal quale mi sono arrivate segnalazioni riguardanti la pessima situazione carceraria.
Lo Stato è più forte non quando dimostra sopraffazione ma attraverso il rispetto, fornendo spazi e servizi che non ledano la dignità umana. In questo momento pesa più che mai l’assenza e l’inadeguatezza dello Stato nel gestire un carcere moderno.
Roberto Greco