In attesa di capire quali saranno gli interventi concreti sulla giustizia civile, che si spera apporteranno vari miglioramenti sia in termini di accelerazione della durata dei processi che in tema di efficienza dell’apparato giudiziario, si è costretti a riscontrare l’ulteriore inopportuno aumento del contributo unificato (ossia quella tassa forfettaria che ha sostituito la “marca da bollo” sugli atti giudiziari) che va necessariamente versato all’avvio di qualunque processo.
L’art. 53 del DL 90/14 ha infatti elevato ulteriormente il già rilevante costo del contributo unificato per i giudizi civili.
Va peraltro osservato che il costo del contributo unificato è aumentato della metà per i giudizi in grado di appello ed è ulteriormente aumentato per il giudizio in Cassazione (praticamente il doppio di quello del giudizio di primo grado).
Vi è poi una norma contenuta nel TU delle spese di giustizia particolarmente pericolosa e vessatoria per il cittadino, che pare finalizzata a scoraggiare le impugnazioni, prevedendo all’art 13 1-quater del D Lvo 115/02 quanto segue: Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.
Tale norma, che verrà appresso analizzata, pare veramente illogica e vessatoria, e ciò si evince anche da una delle prime applicazioni che ne ha fatto la giurisprudenza.
La Corte di Cassazione Sez. VI civile ha infatti stabilito con la sentenza n° 12928 del 9.6.2014 che nonostante la disposta compensazione (Cass. 14 marzo 2014, n. 5955), deve trovare applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: ai sensi di tale disposizione, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni discrezionali – della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.
La vicenda è emblematica, poiché la Corte Suprema ha dichiarato inammissibile il ricorso riconoscendo che nel caso in esame sussisteva un’assoluta novità di questioni processuali, non confermati da precedenti pronunzie, che giustificava la compensazione delle spese processuali.
In altri termini: si trattava di una fattispecie in cui con ogni evidenza il ricorrente (e per esso il suo Avvocato) che chiedeva giustizia non aveva nemmeno modo di verificare bene i profili giuridici che conducevano alla – poi dichiarata – inammissibilità.
Giova riportare la motivazione della sentenza n° 12928/14: “In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile. Tuttavia, l’assoluta novità delle questioni processuali in base alle quali è stato sostanzialmente definito il ricorso, non constando ad oggi altri arresti di questa corte, rende di giustizia – ad avviso del Collegio – la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.”
Sicchè, se la Corte Suprema afferma di essere totalmente vincolata dall’applicazione della sanzione “punitiva” prevista dall’art 13 comma 1 quater di cui si è detto, anche in un caso eclatante come quello appena deciso, in cui ha ravvisato giusti motivi per disporre la compensazione delle spese, ciò significa che questo “balzello” sarà sempre e comunque automaticamente applicato in presenza di rigetto dell’impugnazione (sia essa in grado d’appello che in Cassazione).
Ci si deve quindi seriamente chiedere se sia costituzionalmente corretta una previsione normativa fortemente dissuasiva e penalizzante, che peraltro colpisce i cittadini in maniera indifferente alla propria capacità contributiva (non scordiamoci infatti che sempre di un tributo si tratta).
Con la conseguenza che i cittadini ricchi o più abbienti potranno tranquillamente sopportare l’onere e l’alea aggiuntiva di dover pagare tale balzello aggiuntivo, mentre i cittadini meno abbienti dovranno riflettere bene su tale rischio (e soprattutto gli avvocati dovranno informare bene i loro clienti di tale spiacevole possibilità, che si trasforma in certezza in caso di soccombenza dell’impugnante).
Nessun obbligo di restituzione se l’impugnazione è accolta
La norma in questione già non pare compatibile col principio di eguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge.
Ci sarebbe piaciuto inoltre che la norma fosse accompagnata da una previsione di segno contrario, ossia che lo Stato fosse tenuto a restituire il contributo unificato incamerato sia nel giudizio di primo grado sia nel giudizio d’appello, perché se invece l’impugnazione è accolta ciò significa che il sistema giustizia di primo grado ha errato, e sarebbe quindi stato giusto restituire tali importi ai cittadini (a prescindere dalla condanna alle spese nei confronti della controparte).
Per un ulteriore aspetto la norma non pare compatibile e comprime il diritto di difesa garantito dall’art 24 della Costituzione, nonché i principi della CEDU sul giusto processo (Art 6) e quelli della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea (art 47) recepiti nel trattato di Lisbona.
Se il modo per deflazionare la giustizia civile è quello di elevarne i costi, dissuadendo in tal modo il cittadino e facendo sì che la giustizia civile diventi un settore riservato ai soli ricchi ed abbienti, non siamo d’accordo e cercheremo in ogni modo di contrastare questi insani principi.
Tutt’altro discorso se invece si vogliono disincentivare le liti temerarie e/o manifestamente infondate, utilizzando strumenti processuali che già esistono e che possono essere ulteriormente affinati, realizzando anche in tal modo un effetto deflattivo.
A rischio la giurisprudenza “creativa” e “innovativa”
Non è tendenzialmente censurabile invero, che vi sia nell’ordinamento una forte spinta dissuasiva alle liti temerarie, che provocano un costo inutile per la collettività e non garantiscano o soddisfano un effettiva esigenza di giustizia, ma la norma che abbiamo esaminato risulta invece ingiustamente punitiva e lesiva del diritto di azione in giudizio.
Vi è inoltre un ulteriore aspetto da non sottovalutare.
Se gli Avvocati per non far correre rischi a propri clienti non cercheranno più di “forzare” interpretazioni giurisprudenziali, astenendosi dal proporre le impugnazioni, finirà la stessa giurisprudenza “creativa” ed “innovativa” che è alla base dell’evoluzione giurisprudenziale, poiché progressivamente non vi sarà più la materia e le questioni su cui esercitarla.
Ed invero, se un Avvocato deve dire al proprio cliente: vorrei indurla a fare l’appello e forzare questa tesi che mi sembra sbagliata o non adeguata a nuovi valori che stanno emergendo (in ipotesi anche in dottrina), ma devo avvisarla che se perde pagherà praticamente – tra iscrizione a ruolo e sanzione punitiva – ben 3 volte l’esoso contributo (già aumentato) del giudizio di primo grado, saranno ben pochi i clienti (se non come detto quelli più facoltosi) che vorranno egualmente procedere con l’impugnazione.
Auspichiamo quindi che in occasione della conversione dell’art 53 del DL 90/14, possa essere inserito un emendamento che elimini questa sanzione punitiva, che colpisce automaticamente la mera soccombenza dell’impugnante, senza peraltro lasciare nessuno spazio discrezionale al Giudice per valutare se sia opportuna o meno la rigida applicazione della norma (ad esempio come avviene in materia di spese legali, ove la compensazione di quest’ultime può esser disposta, ai sensi dell’art. 92 cpc, laddove concorrano gravi ed eccezionali ragioni, da specificare in motivazione).