PALERMO – Ventisette miliardi in più di produttività e dieci miliardi in meno di costi fissi, questi i dati positivi del tanto chiaccherato “lavoro agile”. Agile è infatti definita la prestazione di lavoro subordinato che si svolge al di fuori dei locali aziendali, senza l’obbligo di utilizzare una postazione fissa. Dall’indagine dell’Osservatorio ad hoc della School of Management del Politecnico di Milano, negli ultimi due anni gli italiani che lavorano da casa pare siano cresciuti vistosamente.
Nel 2014 solo l’8% delle grandi imprese utilizzava lo smart working e nel 2015 la percentuale è nettamente cresciuta, raggiungendo quota 17%. In salita anche l’interesse per il coworking, con già 349 spazi presenti nello stivale, ai quali si aggiunge il 14% di grandi imprese che si apprestano ad avviare progetti di lavoro decentrato e un altro 17% che ha avviato iniziative puntuali di flessibilità solo per particolari profili, ruoli o esigenze delle persone.
Delle 250 imprese-campione, quasi una grande impresa su due, quindi, sta andando verso questo nuovo, comodo e intelligente approccio all’organizzazione del lavoro. In base alle esperienze internazionali, pare che l’adozione di forme di lavoro flessibile porti a consistenti aumenti in termini di produttività, con picchi che raggiungono il 35-40% nelle grandi aziende e una consistente e positiva diminuizione della percentuale degli assenteismi (-63%). Il lavoro “smart” è ufficialmente pronto a sbarcare in Italia, non appena i 9 articoli del ddl predisposto dal professor Maurizio Del Conte entreranno in vigore. La norma, in generale, vuole migliorare le condizioni di lavoro e i lati positivi della legge riguardano soprattutto la possibilità di riuscire, attraverso il lavoro “intelligente”, a conciliare finalmente ufficio e cure parentali, lavoro e tempi di vita. Una conquista, dunque soprattutto per le donne, troppo spesso messe avanti alla scelta figli o carriera. Secondo gli ultimi dati Istat, si attesta purtroppo al 30% la percentuale delle donne occupate costrette a dover lasciare il lavoro dopo la gravidanza, con un tasso di occupazione femminile stagnato al 46,6%, contro il 64% dei colleghi uomini.
Nonostante le comodità, il lavoro “agile” non sarà considerato lavoro di serie B. La normartiva prevede, infatti, condizioni molto simili a chi il lavoro lo fa da una postazione tradizionale e quindi in ufficio. La nuova legge prevede che il dipendente possa lavorare fuori dai locali aziendali “per un orario medio annuale inferiore al 50% dell’orario di lavoro normale, se non diversamente pattuito”, senza l’obbligo di avere una postazione fissa.
Tutta la disciplina della prestazione di lavoro, strumenti utilizzati, modalità di organizzazione e tempi, viene regolata da un accordo tra dipendente e datore di lavoro che può essere a tempo indeterminato o determinato, ma in questo ultimo caso della durata massima di due anni. Inoltre, la legge precisa che il trattamento economico di uno smart worker “non deve essere inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti degli altri lavoratori subordinati che svolgono la prestazione lavorativa esclusivamente all’interno dei locali aziendali, a parità di mansioni svolte”. Per il lavoratore che sceglie questa modalità è prevista poi la copertura assicurativa dell’Inail e anche il riconoscimento degli incentivi per la contrattazione di secondo livello.
Tablet e smartphone due strumenti indispensabili
Lo “smart working” diventerà legge, ma la strada per la sua capillare diffusione è ancora lunga. Nonostante Pc portatili, tablet o smartphone siano già più che presenti nel 91% delle grandi imprese e nel 49% delle PMI, mentre social network, chat, conference call e documenti condivisi risultano attualmente attivi nel 77% dei grandi gruppi contro il 34% dei piccoli, secondo i dati Doxa solo il 5% delle PMI ha già avviato un concreto progetto strutturato di smart working, il 9% ha introdotto solo in maniera informale logiche di flessibilità e autonomia e oltre una PMI su due non conosce ancora questo approccio d’avanguardia o addirittura non si dichiara interessata. I principali limiti sono da atttribuire all’incompletezza della digitalizzazione dei processi aziendali (57%), alla scarsa efficacia nella comunicazione e collaborazione virtuale (47%) e alle difficoltà nell’ assicurare lo stesso livello di performance dei sistemi anche al di fuori della sede aziendale (41%).