Autonomia e Regioni. In Sicilia è fallita

I risultati dei due Referendum di Lombardia e Veneto non potevano essere diversi. I più entusiasti a votare “Sì” sono stati quelli delle città minori e dei piccoli centri, tanto che a Milano e a Venezia l’affluenza è stata ridotta rispetto alla media. è ovvio che la maggior parte di coloro che sono andati a votare avrebbero inserito il “Sì” sulla carta o sul digitale.
A questo riguardo, dobbiamo salutare con grande attenzione il voto espresso sui tablet in Lombardia, con una spesa tutto sommato non eccessiva di 22 milioni di euro. Dobbiamo augurarci che il voto elettronico venga esteso alle elezioni di qualunque ordine e grado, in modo da ridurre fortemente le spese che in un turno nazionale vengono stimate intorno ai 300 e più milioni di euro.
Il più volte citato articolo 116 della Costituzione prevede che “ulteriori forme e condizioni particolari da autonomia” possono essere attribuite alle Regioni a Statuto ordinario limitatamente a tre materie: Stato civile ed Anagrafi, Istruzione e Ambiente (così come specificato nel successivo articolo 117).

Dunque, sono destituite di fondamento tutte le informazioni diffuse dai presidenti delle due Regioni e dagli organi di stampa interessati, circa le richieste di Autonomia analoga a quelle delle Regioni a Statuto speciale e le altre relative alla materia fiscale. Quest’ultima, sempre come statuisce la Costituzione, è materia esclusiva dello Stato (art. 53). Quindi, tutte le argomentazioni relative a una maggiore attribuzione delle imposte nazionali a Lombardia e Veneto sono costituzionalmente improponibili.
Questa condizione, obiettivamente danneggia le due Regione ricche del Paese, perché diventano tributarie di uno Stato centrale sprecone, che distribuisce risorse a pioggia, che non privilegia gli investimenti e soprattutto che sostiene indebitamente le Regioni meridionali inefficienti, ove da decenni alberga la cultura del favore piuttosto che quella dello sviluppo.
Questa è una conseguenza di una classe politica abituata a scambiare il bisogno con il voto, anziché progettare in grande e utilizzare tutte le risorse per costruire il futuro, passo dopo passo.
 

Nelle cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta) e le due Province autonome di Bolzano e Trento, i risultati delle Autonomie sono molto diversi. Infatti, le tre regioni del Nord hanno un reddito doppio rispetto a quello delle due Isole, il tasso infrastrutturale è tre volte superiore, l’occupazione è quasi totale.
Tutto ciò anche perché la Pubblica amministrazione funziona bene, proveniente da un retaggio dell’Impero Austro-Ungarico per quanto concerne il Trentino-Alto Adige e francese per la Valle d’Aosta.
Le due Regioni autonome di Sicilia e Sardegna, invece, hanno avuto un’influenza araba e i risultati si vedono: in Sicilia l’Autonomia è fallita e ha fallito i suoi obiettivi. Uno Statuto ricco di prerogative – compresa quella che identifica nel presidente della Regione il capo della Polizia (art. 31) – ma che è stato utilizzato in questi settant’anni come scudo, rispetto alle norme nazionali, per seminare e far crescere la malapianta del privilegio.

Cosicché, in Sicilia vi sono Caste di ogni genere, soprattutto nel settore pubblico, mentre i poveri stanno viaggiando verso il milione di unità.
Con il taglio dei trasferimenti statali e la diminuzione delle entrate regionali, la situazione del Bilancio della Sicilia si è fatta drammatica. Bisogna dare atto a quell’eccellente assessore all’Economia, che è Alessandro Baccei, della capacità mostrata nel ristrutturare le finanze dell’Ente e ricondurle in limiti meno disastrosi.
Tuttavia, nulla ha potuto fare per trasferire risorse dalla spesa corrente agli investimenti, pressato da orde fameliche che lo hanno strattonato per un verso o per l’altro e lo hanno costretto ad allargare i cordoni della borsa per accontentare questa o quella categoria di privilegiati e parassiti.
Ormai è parere unanime: lo Statuto siciliano deve essere profondamente modificato. Ma forse sarebbe opportuno che il Parlamento nazionale, con una riforma costituzionale approvata dai due terzi dei suoi componenti, senza la necessità del referendum confermativo (art. 138), abolisse le Autonomie delle cinque Regioni per ristabilire la parità fra tutte.