Il 27 gennaio 1945, nel primo pomeriggio, i soldati dell’Armata Rossa, varcavano i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Ai loro occhi si schiudeva una realtà atroce ed inumana. Malgrado i Nazisti avessero tentato di distruggere tutto quello che non poteva essere occultato o portato con loro nella concitazione della fuga, quel che era rimasto era già sufficiente a far luce su quanto accaduto in quei luoghi dimenticati dal mondo, da cui si avevano soltanto poche notizie frammentarie e spesso non credute.
Ma i documenti rimasti, le cose abbandonate e oltre novemila uomini lasciati a languire perché malati o comunque esausti ed in uno stato tale da non poter essere allontanati, e di cui una parte notevole si spense da lì a breve, malgrado l’arrivo dei soccorsi. Le persone e le cose rimaste nel campo di sterminio, erano nel loro insieme la prova incontestabile di uno degli eccidi più esecrabili che la storia ricordi.
La istituzione della “Giornata Internazionale della Commemorazione in Memoria delle Vittime dell’Olocausto”, deliberata nel 1960 dalle Nazioni Unite al fine, venne poi istituita, al cospetto di tanto sgomento per essere una celebrazione finalizzata per ricordare, alle generazioni, un fatto storico di portata eccezionale, che deve essere da monito all’intera umanità affinché non abbia più a ripetersi ed allo stesso tempo per opporsi ad ogni tentativo di negazionismo. Quindi la primaria esigenza di salvaguardare l’umanità dal male, in chi istituì la ricorrenza, sembra prevalere sullo stesso senso di pietas, sempre presente, nei confronti delle vittime innocenti, spesso bambini, donne anziani e comunque certamente tutti incolpevoli.
Molto si è detto e si potrebbe dire sulle loro sofferenze, e su come questi esseri umani vennero strappati dal loro quotidiano, con la violenza e di sovente con la menzogna e l’inganno subdolo, artifici in cui i nazisti non si risparmiavano, per rendere le loro vittime più docili. Già inenarrabili erano le afflizioni che provocava il lungo viaggio, di giorni e giorni, su carri ferroviari piombati, certamente inadatti anche per il trasporto di bestie, dove malcapitati trasportati venivano privati dell’aria, della luce, di un tozzo di pane, di un sorso d’acqua, dell’igiene e della dignità e dove cominciava la macabra opera di decimazione. Coloro che giungevano vivi al piazzale del campo a cui erano destinati cercavano di nutrire in cuore l’illusione di una destinazione meno disumana. Anche quest’ultima illusione ben presto veniva strappata loro dal petto. Infatti, appena messi i piedi a terra, cominciavano subito gli ordini urlati, con i quali venivano separati uomini da donne, madri dai figli, mariti dalle mogli, vecchi dai congiunti e così cominciava per ciascuno di loro il cammino per andare a morire che ogni vittima percorreva come poteva e così come gli veniva imposto. Molto altro sarebbe doveroso ricordare in merito a queste vite spezzate, ma a questo provvederanno meglio tutte le iniziative in programma, che a causa della pandemia si svolgeranno non di presenza e come ogni anno molto sarà detto, anche con opere d’arte e testimoniato dai pochi sopravvissuti il cui numero va sempre più assottigliandosi con il decorso del tempo.
Ma una breve e forse non solo formale considerazione merita di essere consegnata a chi malgrado la notorietà dell’argomento avrà voluto scorrere queste righe. È d’uso comune e la stessa Assemblea delle Nazioni Unite utilizza nella sua deliberazione del 1960, l’espressione “Vittime dell’Olocausto”, in realtà l’espressione è inesatta ed invece sarebbe corretto dire “Vittime della Shoa”.
Olocausto ha il significato di sacrificio supremo, voluto per ragioni sacre o comunque mosso da motivazioni d’ordine morale e superiore. Quindi nulla di più inadatto per definire un’azione che materializza il male assoluto, bieco ed ottuso, certamente non voluto dalle vittime e privo di ogni ragione morale, ma generato dall’infima follia di una dittatura sanguinaria. Per questa ragione la lingua ebraica ha coniato il termine Shoa che appositamente ed esclusivamente è riferito alle vittime del genocidio nazista.