L’accordo, sostanzialmente definito, tra Fiat e Chrysler segna una tappa importante del progetto di Sergio Marchionne, che è quello di creare un gruppo mondiale capace di produrre sei milioni di auto. Una terza parte dell’accordo potrebbe essere l’Opel tedesca, di proprietà della General Motors, che non vede l’ora di disfarsi della sua controllata carica di debiti.
Ma il progetto di Marchionne non si ferma qui, perché è sua intenzione estendersi in Sud America, in modo da acquisire mercati in espansione, soprattutto argentino e brasiliano, i cui abitanti superano i duecento milioni.
Dietro il manager, nato nelle Marche e cresciuto professionalmente in Canada e in Svizzera (ancora vice presidente dell’Unione banche svizzere), vi è tutta la famiglia Agnelli, la cui cassaforte, Exor, è guidata dal trentatreenne ingegnere, John Elkann, pupillo del nonno Gianni.
Ma vi è anche Luca di Montezemolo, persona di altissima qualità, che tiene insieme tutte le fila, nonché Gianluigi Gabetti, da sempre l’architetto finanziario delle società della famiglia.
La Fiat, col progetto Marchionne, fa esattamente il contrario dell’indirizzo dato da Berlusconi nella vicenda Alitalia. Cioè diventa una company internazionale. I sindacati l’hanno capito e paventano che l’espansione della casa torinese all’estero possa andare a detrimento delle fabbriche italiane.
Invece sarà così perché è nella logica delle cose. La fabbrica del Nord, già individuata, e quella di Termini Imerese, saranno chiuse. L’illusione che possa proseguire la sua attività è contrastata da due fattori: il primo riguarda il costo per unità di prodotto, superiore di un terzo a quello della fabbrica di Melfi. Il secondo è relativo alla piccola dimensione.
Un grande e coraggioso progetto della Regione dovrebbe riguardare la conversione di quel territorio in grandi insediamenti turistici. Se messo all’asta internazionale, attirerebbe l’interesse di molti gruppi e investitori stranieri, mentre il personale potrebbe tranquillamente essere riconvertito.
La Fiat sta marciando a grandi passi verso la conversione dei motori alla Green Economy. Il nuovo rivoluzionario motore Multiair, la ricerca approfondita verso le auto elettriche e quelle a idrogeno, la virata dei propulsori verso il metano sono tutti indicatori precisi del nuovo indirizzo che Marchionne ha dato alla ricerca.
Ora è il turno dei petrolieri italiani, primo fra i quali l’Eni, a controllo pubblico, la famiglia Moratti, con la Saras di Milano, e la famiglia Garrone, con la Erg di Genova.
Non è che i petrolieri debbano ridurre il loro mercato, ma più semplicemente sostituire l’odiosa parola (petrolieri) con una più moderna: produttori di energia. La produzione di energia può sganciarsi tranquillamente dal petrolio. Comprendiamo perfettamente che finché esso costi poco, da cinquanta a cento dollari a barile, non vi è convenienza ad utilizzare altra materia prima, perché essa costerebbe di più e perché lo stesso processo produttivo costerebbe di più.
Però, i produttori di energia potrebbero volontariamente ridurre un poco i loro profitti e investire in fonti a basso inquinamento. Qui non si tratta di privarli del giusto profitto, bensì di convertire una parte di esso in innovazione. Naturalmente, il governo dovrebbe fare la sua parte dando incentivi fiscali e finanziari alla riconversione degli impianti e all’utilizzo di materie prime alternative al petrolio, con particolare riguardo a quelle vegetali.
Ma non si avvertono novità al riguardo. Tutto procede con un silenzio preoccupante perché né dalla categoria di Assopetroli (che dovrebbe cambiare la propria denominazione in Assoenergia), né da parte del ministro competente, Claudio Scajola, vi sono indirizzi di cambiamento al riguardo.
Peccato che i partiti di opposizione di tutto si preoccupino tranne che del benessere dei cittadini. Per la verità neanche quelli di maggioranza se ne preoccupano. Se così agissero, troverebbero nel tema dell’energia alternativa al petrolio e nella lotta a tumori e malformazione dei neonati (come nel triangolo della morte Melilli-Augusta-Priolo e a Gela), un grande consenso, senza bisogno di scomodare i falsi verdi che hanno utilizzato questo filone solo per dire no.