Petrolieri inquinatori e impuniti

SIRACUSA – Le capacità di reazione della natura nel triangolo industriale Priolo-Melili-Augusta sono terminate. In particolare, sono totalmente azzerate quelle della rada di Augusta e dei suoi fondali, mortalmente colpiti negli ultimi sessant’anni da un inquinamento indiscriminato. E nessuna delle grandi imprese della zona, operanti nel settore degli idrocarburi e della petrolchimica, che vi si sono insediate nel tempo, compromettendo ormai irreparabilmente la matrice ambientale, ha intenzione di risarcire e riparare i danni arrecati. Questo nonostante lo scorso 29 marzo la Corte di giustizia europea (con sede in Lussemburgo) abbia ribadito, per l’area industriale a Nord di Siracusa, il principio comunitario del “chi inquina paga”.
 
La Corte ha rimarcato come, secondo la direttiva sulla responsabilità ambientale, “per poter presumere un nesso di causalità, l’autorità nazionale deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività”.
In pratica, la Erg, la Polimeri Europa, la Syndial, l’Eni, la Esso e le altri grandi imprese del petrolchimico dovrebbero tutte pagare i danni. Esemplificativa è la questione relativa alle 500 tonnellate di mercurio ritrovate nei fondali megaresi, che ha comportato una complessa e intricata vicenda giudiziaria, banalizzata come caduta in prescrizione, ma che in realtà ha avuto risvolti alquanto diversi.
“Quasi tutti gli indagati, responsabili dell’inquinamento della rada, – conferma, infatti, il sostituto della Procura della Repubblica di Siracusa, Maurizio Musco – hanno patteggiato la pena, con condanne fino a due anni. Solo per alcuni reati – aggiunge il pubblico ministero – ci sono state le prescrizioni”. In base a quanto spiega Musco, si è inizialmente proceduto per “l’organizzazione illegale del traffico e dello smaltimento di rifiuti pericolosi”, reato contemplato dall’ex art. 53 bis del Codice di procedura penale, che prevede condanne da 1 a 6 anni. “In seguito – aggiunge il sostituto procuratore – la vicenda si è intersecata con l’avvelenamento delle acque, per il quale si sono susseguite ben tre consulenze”. L’esito delle perizie ha stabilito “un alto grado d’inquinamento dei fondali della rada di Augusta, ma non tale da mettere in pericolo l’incolumità pubblica”. Forti di questo risultato, i difensori delle imprese hanno così chiesto l’archiviazione del reato di avvelenamento delle acque, ottenendola dal gip incaricato.
Terzo e fondamentale punto della vicenda dell’inquinamento della rada di Augusta riguarda la sua bonifica. E’ bene rammentare, che per attuarla il ministero dell’Ambiente, seguendo i dettami della normativa contenuta nel Dlgs 152/2006, ha stabilito siano necessari oltre 670 mln di €, metà dei quali avrebbero dovuto essere a carico dell’industria. Solo ricorrendo all’intervento del Tar di Catania, nel 2008, le industrie petrolchimiche sono riuscite a evitare il loro dovere, anche se la sentenza della giustizia amministrativa siciliana è stata poi vanificata dalla Corte di giustizia Ue. “Da un punto di vista penale, – chiarisce il magistrato Maurizio Musco – l’obbligo di  bonifica è stato introdotto alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, e dato che l’inquinamento in questione è avvenuto tra gli anni Cinquanta e Settanta, non si è potuto applicare il principio di retroattività, e quindi – conclude – non si è potuto procedere”.  Se da un lato, dunque, la Giustizia penale ha avuto i suoi risvolti, dall’altro quella civile può e deve avere il suo percorso per giungere ad un vero è proprio risarcimento dei danni, unica compensazione accettabile per un territorio spremuto fino all’osso.