CALTAGIRONE (CT) – Una storia iniziata oltre vent’anni fa e che sembra non avere fine. È la storia della diga di Pietrarossa, opera pubblica giustificata dalla penuria di acqua nella Piana di Catania. Da qui l’urgenza di realizzare l’opera il cui progetto realizzato nel 1982, fu esitato dal consiglio superiore dei Lavori pubblici nel 1983 e nel 1986 e finanziato per 145 miliardi di euro nel 1988 dalla CasMez.
In una nota di Legambiente circolo “Il Cigno” di Caltagirone si legge: “Non ha mai avuto il parere del Ctar, non ha le autorizzazioni urbanistiche ai sensi della l.r. n.65/81, in quanto opere non conformi agli strumenti urbanistici dei Comuni interessati e sprovviste della valutazione d’Impatto ambientale, ai sensi del Dcpm del 10.8.1988 n.337 (art.1, lett. l). I lavori iniziarono nel 1989 ed oggi è ultimata al 95 %, ma non è messa in sicurezza, con grave pericolo per le popolazioni. L’opera interessa, inoltre, aree sottoposte a vincolo paesaggistico ed ambientale ai sensi dell’art. 146, comma 1°, lett. c, del T.U. 490/99 (legge Galasso). Il progetto fu inviato alla Soprintendenza ai Beni culturali e ambientali di Catania nel 1987 e non ha mai ottenuto alcun esito e non ha fondamento la tesi della stazione appaltante che le opere realizzate sarebbero da ritenersi munite di autorizzazione in virtù dell’istituto del “silenzio-assenso”, in quanto non previsto dall’ordinamento”.
I lavori, iniziati nei primi anni ’90, proseguirono fino al 1993 quando con il contributo dei tombaroli in località Casalgismondo fu rinvenuto un insediamento di epoca romana. La Sovrintendenza di Enna avviò una campagna di scavi archeologici tra il 1992 e il 1993 e tra il 2002 e il 2003. Si ipotizzò il ritrovamento di una “Statio Capitoliana”, cioè un insediamento destinato all’ammasso delle derrate agricole, alla riscossione dell’erario e ai luoghi di sosta per il servizio pubblico di posta, che in età imperiale si susseguivano lungo il percorso dell’antica strada romana che collegava Catania ad Agrigento. Da allora la Sovrintendenza ne ha sospeso i lavori, tranne per un breve periodo nel 1997.
“La diga è un’opera pubblica abusiva, deve essere demolita e vanno ripristinati i luoghi – ha dichiarato Sebastiano Russo, presidente del circolo Il Cigno – puntando ad uno studio archeologico dell’intera zona, col recupero dei reperti dell’insediamento romano venuti alla luce in località Casalgismondo.
Che fare oggi? L’intera area della diga è sotto sequestro da parte della magistratura. Nelle riunioni succedutesi tra Roma e Palermo si è arrivati alla conclusione che questa diga non ha più un padre e, innescando il meccanismo dello scarica barile, è stato chiamato più volte alle sue responsabilità il Governo regionale che continua a tacere”.
“Sollecitiamo una decisione – ha concluso Russo – e non ci appare improponibile e assurdo pensare di ammettere, per chi è responsabile, errori e mancanze, e procedere alla demolizione di un’opera abusiva, ripristinare i luoghi e salvaguardare, approfondendo gli studi e le ricerche, una notevole testimonianza del nostro passato, sul quale vogliamo costruire il futuro della Sicilia”.