Vi è la diffusa convinzione, anche nella classe medica, che la continua specializzazione, anzichè migliorare il modo per affrontare le patologie lo peggiori. Ciò perché ogni specialista si occupa del suo versante come se l’organo o l’insieme di organi sottoposti a cura non facessero parte del corpo umano. Esso è un unicum, fatto di funzioni integrate e interdipendenti. è difficile occuparsi di una sua parte senza tener conto dell’intero. Oltre che difficile è inefficace, appunto per l’interdipendenza degli organi.
Mi ricordo che un mio parente, negli anni Cinquanta, medico condotto di un paesino di cinquemila abitanti sulle pendici dell’Etna, si recava presso le abitazioni di tutti gli assistiti che lo chiamavano. Egli si occupava delle patologie, dal capello al dito quinto del piede e trovava sempre una soluzione, non solo in base ai dati fisici che rilevava, ma anche con l’intuito fondato sulla propria esperienza. In quella casa, ove io abitai per lungo tempo, arrivavano generi alimentari genuini di tutti gli assistiti, che ripagavano il loro tutore sanitario con estrema gratitudine.
Tempi passati, dirà qualcuno. Non è così. Il corpo umano può aver subito qualche mutazione, ma è comunque uguale nei secoli. Oggi l’ambiente genera veleni e tossicità che vengono metabolizzati abbastanza bene. Tanto che la vita media si è allungata in un secolo di qualche decennio. Tuttavia rimane la questione citata all’inizio: l’estrema specializzazione dei medici che perdono di vista l’insieme.
In aggiunta vi è un’altra questione: l’abuso di esami clinici ed elettromedicali, anche quando non ve n’è bisogno. Si comprende che la classe medica tenda a cautelarsi da eventuali denunce di incompetenza, però dovrebbe scegliere l’equilibrio, dovuto al giuramento di Ippocrate, per cui ognuno di essi dovrebbe dar conto esclusivamente alla propria sapienza e alla propria coscienza.
Ciò non sempre accade. Per cui spesso i malati vengono trattati come numeri e non come persone, come se la stessa malattia fosse uguale per tutti. Così non è, perché ogni persona ha un Dna differente dall’altra e, dunque, va trattata come individuo e non come componente di una categoria.
Vi è anche un’ulteriore questione da valutare e cioè che il medico dovrebbe curare il malato e non la malattia. Per far ciò sarebbe sua cura avere la pazienza di capirne la personalità e la storia, saperne di più sulle parentele, sulle abitudini, sulla vita che conduce e altri aspetti, per poter compilare una corretta anamnesi. Non è detto che gli stessi farmaci abbiano il medesimo effetto su persone diverse con la stessa malattia, nè possono comandare i protocolli. Non è detto che sia opportuno somministrare farmaci, probabilmente utili al tipo di malattia, ma non al malato. Si tratta di personalizzare il rapporto fra medico e paziente, uscendo dal tunnel della quantità per utilizzare la qualità.
Gli esami diagnostici sono utili, ma devono servire per avvalorare la diagnosi che ha fatto il medico. Non vanno quindi prescritti genericamente come facenti parte di un menù, ma in modo appropriato e sobrio.
La spesa sanitaria cresce sempre non solo perchè la vita si è allungata, ma anche perchè vi è un abuso di farmaci, di esami e di ricoveri impropri negli ospedali.
Quando parti interessate urlano che la riduzione delle risorse finanziarie lede i servizi sanitari dicono una semplice falsità. Basterebbe mettere mano ad una riorganizzazione generale, al coinvolgimento effettivo dei medici di famiglia, alla selezione dei farmaci prescrivibili, all’eliminazione dell’esubero del personale amministrativo (clientelare) per riportare la spesa sanitaria alla media europea. Con ciò tagliando cinque miliardi a livello nazionale e cinquecento-ottocento milioni in Sicilia.
Nell’epoca dell’informatizzazione e della trasmissione telematica di esami e referti non è più ammissibile che vi siano tanti piccoli ospedali a distanza di poche decine di chilometri. Basterebbe metterli in rete e specializzarli in branche diverse sotto un’unica regia dell’Asp provinciale, per ottenere alcuni dei risparmi prima indicati.
Il ceto politico e quello medico dimenticano che il servizio pubblico esiste per servire il malato, non per pagare stipendi. Riflettiamo su questa semplice considerazione.