Secondo Friedrich Nietzsche (1844–1900) i preti dicono sempre menzogne. Eccessivo. Tuttavia la religione cattolica predica il perdonismo ed esalta la povertà fisica ed implicitamente la povertà di spirito, il che è contrario ad un principio naturale, secondo il quale i meritevoli devono primeggiare nelle classifiche e gli altri devono essere inseriti fino all’ultimo posto.
In questo quadro, nel nostro Paese, un pensiero catto-comunista ha dominato il dopoguerra: che la ricchezza fosse peccato, anche questo riconducibile ad un passo del Vangelo, secondo il quale è più facile che un cammello passi per una cruna dell’ago piuttosto che un ricco entri nel Regno dei Cieli. Per noi, questo è sbagliato perchè si presume che il ricco sia peccatore.
La verità è che bisogna entrare in profondità nel concetto di ricchezza per determinare quale è quella positiva e quale quella negativa.
La ricchezza che si tramanda da padre in figlio è soggetta ad una modesta imposta di successione. Gli immobili si trasferiscono comprensivi del terreno su cui insistono, mentre in Francia ed in altri Paesi il terreno è sempre di proprietà dello Stato, cui ritorna dopo novantanove anni.
Se ricchezza vuol dire rendita di posizione ha una connotazione negativa. In altre parole, chi si gode la ricchezza prodotta da altri senza far nulla con il proprio apporto non ha il diritto etico di usufruirne. Peggio, come capita quando generazioni successive dilapidano i patrimoni dei propri avi.
Caso opposto è quello in cui la ricchezza venga prodotta da chi ha messo in atto attività produttive capaci di generare valore. In questo caso, l’aspetto etico che va guardato è se tale ricchezza sia stata soggetta alla imposizione fiscale, per ottemperare al precetto di cui all’articolo 53 della nostra Costituzione.
Assolti gli obblighi fiscali e valutando la produzione di ricchezza, fonte di attività oneste, il metro del proprio reddito diventa onorevole ed anche oggetto di confronto positivo. Proprio il contrario di quanto afferma il principio prima scritto, portato avanti per lunghi anni, da una becera politica, appunto catto-comunista.
All’inferno, se esiste, devono andare i deliquenti e gli evasori, non chi produce onestamente ricchezza, chi dà lavoro e chi paga tutte le imposte, anche se ingiuste.
In questo quadro va rimarcata una fonte indebita di ricchezza cioè quella generata senza merito o senza la misura dell’eventuale merito. Ci riferiamo alla pletora di dirigenti pubblici di Stato, Regioni e Comuni i cui compensi non sono ragguagliati agli obiettivi e, soprattutto, non sono ragguagliati ai risultati. Come è noto, facendo il confronto tra obiettivi e risultati si capisce se il responsabile di un’amministrazione sia meritevole o meno.
Come continua a ribadire il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, visto che i servizi pubblici non hanno un prezzo devono essere misurati in altro modo. Solo la misura di quantità e qualità dei servizi pubblici può indicare se essi siano ragguagliati e ragguagliabili agli obiettivi prefissati dalle amministrazioni.
Gli incompetenti o chi è in malafede affermano che i servizi non sono misurabili. Dietro questa affermazione vi è quel mondo grigio e denso quasi impenetrabile della Pubblica amministrazione, dentro la quale si commettono arbitri di ogni genere, atti di ruberie e corruzione.
Per questa ragione, le amministrazioni e la burocrazia resistono all’obbligo della trasparenza, che è quello di mettere sui siti ogni atto ed ogni provvedimento, in modo che i cittadini, che sono i loro datori di lavoro, possano constatare se i pubblici dipendenti funzionino o meno, rispetto ad un piano aziendale che ogni ente deve avere.
Dalle nostre inchieste e da quelle di altri giornali sono emersi dirigenti dello Stato e delle Regioni che oltre a percepire ricchi emolumenti di circa duecentocinquantamila euro lordi all’anno hanno percepito (e continuano a percepire) compensi per incarichi extra (quali commissari, arbitri, consulenti, avvocati pubblici e via elencando) pari a una o più volte il loro compenso base.
Gente che ha incassato, in un anno, spesso più di un milione di euro, anche se ha pagato le imposte, senza alcuna proporzione con il merito del proprio lavoro.