Presidente Corradino, lei a giugno è stato eletto alla presidenza dell’Ordine regionale dei giornalisti siciliani. Quale stato di salute del giornalismo isolano ha riscontrato?
“Innanzitutto voglio dire che sono contento di stare su una poltrona che in passato è stata occupata da persone illustri come Bent Parodi, Marcello Cimino, Mario Vannini, colleghi che non ci sono più ma che sono stati vanto per l’intera categoria giornalistica siciliana. Lo stato di salute del giornalismo non è buono, in Sicilia come nel resto d’Italia. Tutti i presidenti regionali hanno evidenziato che la crisi del mondo editoriale è pesantissima, e paradossalmente lo è forse ancor di più in regioni quali la Lombardia e il Lazio che sono quelle a maggiore concentrazione di giornali e testate e quindi con un maggior numero di iscritti. Pensate che la Lombardia ha circa 25 mila iscritti, mentre in Sicilia gli iscritti sono 5 mila, mille professionisti e quattromila pubblicisti”.
Ma dove si annidano le cause della crisi?
“Registriamo un evidente calo nelle vendite dei quotidiani dovuto a motivi oggettivi e legato ad una crisi mondiale che non conosce confini. Ma se prima si poteva attingere ai grossi ricavi del mercato pubblicitario, oggi anche le più grandi società pubblicitarie hanno i loro problemi nel far quadrare i bilanci e tutto questo inevitabilmente si ripercuote nel settore giornalistico. Gli editori, quindi, cominciano a scremare a partire dal costo dei giornalisti”.
Un costo forse appesantito da una struttura del lavoro che oggi andrebbe cambiata.
“Ormai le dinamiche di lavoro non sono più quelle tradizionali. È scomparsa la classica figura del redattore, dell’inviato e per la stesura materiale degli articoli ci si affida sempre di più ai collaboratori. Questo meccanismo ha fatto collassare il mercato del lavoro giornalistico. Oggi troviamo tanti ragazzi che svolgono lavoro professionistico e nella migliore delle ipotesi sono pubblicisti. Ma il punto nodale è che noi dobbiamo ancora rispondere a una legge del 1963. La maggior parte delle persone che oggi lavorano nei giornali nel ‘63 non era ancora nata, l’uomo non era sbarcato sulla luna, era insomma un altro mondo. Una legge che doveva fare i conti con una sola rete televisiva, che aveva a che fare con una sola agenzia di stampa, l’Ansa. I giornali erano quelli di sempre, non c’erano i piccoli quotidiani.
Ricordo che durante gli anni ‘80, quando facevo parte del comitato di redazione de “L’Ora”, il giornale adottò una nuova tecnica, quella della banda perforata. Questo passaggio fece scomparire alcune figure professionali. Già allora feci notare come questa epurazione che colpì il settore poligrafico, come conseguenza delle nuove tecniche di stampa, in futuro sarebbe toccata anche ai giornalisti. Oggi, entrando in una redazione, sembra di entrare in una tipografia di quell’epoca: vedo tanti giornalisti, chini sui computer, trasformati in tastieristi. Invece noi sappiamo e insegniamo, che il giornalista è colui che tratta e reperisce una notizia, che ha un rapporto diretto con le fonti, che deve capire deontologicamente cosa va scritto e come va scritto. Se il giornalista perde questo ruolo di mediatore della notizia, la sua figura professionale finirà con lo scomparire”.
Il rapporto tra giornalismo e Pubblica amministrazione?
“Questo è un grave problema, perchè il sindacato non è riuscito a livello nazionale a raggiungere un accordo con la Pubblica amministrazione sulla contrattualizzazione dei colleghi. Molti giornalisti che lavorano per gli uffici stampa non hanno un contratto di categoria. La famosa legge 150 doveva chiarire tutti questi aspetti. Sembrava che in una fase di prima applicazione venisse recepita ma non è stato così”.
Gli Ordini professionali debbono continuare ad esistere?
“Sono per la liberalizzazione, ma ho il terrore di una liberalizzazione all’italiana. L’Ordine quindi, pur con tutti i suoi limiti ed i suoi ritardi, è un punto di riferimento. Se rimuoviamo pure questo, temo che la cura possa essere peggiore del male”.
Pure i free-lance possono diventare professionisti se svolgono attività pari a quella del praticante
Quali sono le modalità di accesso alla professione attualmente?
“Le modalità ad oggi, non essendo mai cambiate, sono le consuete, soltanto che in questi ultimi anni l’Ordine ha dato delle direttive che hanno allargato ulteriormente le maglie. Si può diventare professionisti con il riconoscimento di attività pratica, il che significa avere svolto per la durata del periodo di praticantato, che deve essere di 1 anno e mezzo o 2, un lavoro di tipo giornalistico all’interno di un’azienda. Qualora questo periodo lavorativo non venisse riconosciuto dal datore di lavoro noi possiamo, a chi ne presentasse richiesta, e previo intervento da parte dell’Inpgi che vada a contestarlo, proporre al richiedente di avviare una azione risarcitoria, unica garanzia del fatto che il lavoro si è effettivamente svolto.
“Negli ultimi anni infatti si è affermata una nuova figura, quella del giornalista free-lance. E ci siamo regolati di conseguenza: se il giornalista collabora con diverse testate, e se esse fanno sì che possa guadagnare quanto un praticante nell’arco di un mese (il che tradotto significa circa 17 mila euro all’anno), l’Ordine può iscriverlo come praticante. È stato dato quindi pieno riconoscimento a chi svolge lavoro di tipo giornalistico non dipendente da una singola testata, considerandolo come un vero e proprio libero professionista. Poi ovviamente resta sempre il metodo tradizionale che è quello di un’assunzione presso una testata con l’attestazione del direttore, anche se oggi è sempre più difficile che accada”.