La piccola impresa deve autodeterminarsi

Presidente Felice, lei in passato è già stato ospite del QdS, cosa è cambiato nel commercio siciliano dal nostro ultimo incontro?
“Il commercio dipende sempre più dallo sviluppo del territorio. In questi due anni le cose non sono andate bene. Abbiamo potuto osservare un peggioramento complessivo e diffuso dello stato di salute del commercio. Ma, nonostante le condizioni reali siano negative, il numero delle aziende risulta in crecita. Questo fenomeno però si presta a una lettura negativa, perchè evidenzia come il settore del commercio rappresenti per molti una sorta di “settore rifugio”. La maggior parte delle attività aperte non dura più di un anno. Poi, si arriva al fallimento. E questo crea pesanti ripercussioni sul futuro. Inoltre, la presenza di una crisi estesa, il venir meno della fiducia nel futuro, il precariato che non trova soluzione e le aziende, sinonimo una volta di garanzia e che oggi non riescono più a creare alcuna sicurezza, sono tutti fattori che minano la possibilità e la voglia di spendere.
Da dove ripartire allora? Dobbiamo operare un ragionamento istituzionale. Essendo fallito il modello con cui si voleva dirigere il paese, possiamo imputare la crisi della situazione attuale all’insuccesso delle “politiche del tavolo”. Del resto, si trattava di un tavolo soltanto virtuale. Confindustria rappresenta un tipo di industria che non esiste, in quanto spesso le grandi imprese vengono in Sicilia unicamente perchè interessate agli incentivi anziché al risultato, senza alcun legame col territorio. Il tavolo invece dovrebbe essere formato da quanti realmente si occupano di economia, ed in Sicilia l’economia è fatta principalmente dalle medie e piccole imprese”.
Lei ha un’esperienza ventennale in questo settore, cosa vede nel futuro del commercio?
 “Fino a quando non riusciremo a trovare un metodo efficace di selezione del gruppo dirigente, difficilmente qualcosa potrà migliorare. Cambiano i nomi, cambiano i partiti, ma le facce e le menti restano sempre le stesse. Lo spirito di autoconservazione, caratteristica dell’uomo, in politica dovrebbe lasciar spazio all’interesse della collettività. Ultimamente sono scoppiate delle polemiche per quanto riguarda la legge di riforma del commercio. Il Governo ha presentato questa riforma, che tocca però argomenti poco essenziali, quali il numero delle domeniche in cui si potrà aprire l’esercizio. Per quel che mi riguarda, se esercitare la domenica rappresenta un vantaggio per la collettività e le imprese, allora via libera alle attività aperte ogni domenica dell’anno”.
Con quali conseguenze sui comportamenti del consumatore?
“Il cliente che fa spese durante la settimana, le fa da solo, mentre il sabato e la domenica si porta tutta la famiglia. È in quei giorni quindi, che si registrano gli incassi più alti. Si pensi ad un secondo elemento interessante: fino a qualche anno fa si comprava per bisogno. Questo comportava un adeguamento forzato agli orari dettati dal negoziante. Oggi invece, la giacca che indossiamo non si usura più, la cambiamo per vezzo, non per necessità e possibilmente siamo portati a farlo durante quelle giornate meno stressanti. Ovvero nel fine settimana”.
Ma alla fine questo fenomeno chi favorisce maggiormente? La grande distribuzione o il dettagliante?
“Riceve maggiore giovamento chi è meglio organizzato. Siamo di fronte ad un quadro complesso nel quale la piccola impresa, nonostante la nostra opera di sensibilizzazione, ragiona poco. Una piccola impresa anzitutto è più flessibile, riesce cioè ad avere minori oneri, legati principalmente al coinvolgimento del nucleo familiare stesso. Nella grande impresa invece, il costo è di ben altra natura. Il piccolo imprenditore può scegliere gli orari di apertura, a differenza del centro commerciale che è obbligato a restare aperto ogni domenica, anche in occasione di giornate che offrono minori guadagni. Dalla possibilità di autodeterminarsi da parte della piccola impresa, possono quindi nascere innumerevoli vantaggi”.
 

 
Il commerciante impari a conoscere il cliente. La mafia ricicla nella grande distribuzione
 
Facciamo l’identikit del commerciante di oggi.
“Chi fa il commerciante, oggi, non sempre è un imprenditore. Spesso infatti è qualcuno che, non avendo migliori prospettive, intraprende l’avventura del commercio. Non a caso il rapporto aziende-consumatori è molto basso. Se si aggiunge che la rete distributiva è, oltre che frammentata, sovradimensionata, e se si tiene in conto che le qualità dell’imprenditore non sono sempre quelle richieste dal mercato, ci si fa un’idea del perchè riscontriamo evidenti problemi in questo settore. Ancora oggi infatti manca una cultura imprenditoriale in grado di affrontare il rapporto tra orari e ricavi. Molti negozianti aprono alle nove e chiudono alle tredici, magari in una zona ad alta densità di uffici, laddove invece il cliente ha disponibilità e ritmi differenti. Attraverso l’analisi dei bisogni dei consumatori si arriva a toccare un altro punto nodale per il commercio: il turismo. Promuovere il turismo significa avere città aperte, con un adeguato sistema di accoglienza”.
La grande distribuzione può diventare una vostra alleata piuttosto che una concorrente scomoda?
“Io sono fermamente convinto che la grande distribuzione serva anche al riciclaggio del denaro sporco. Un ottimo affare per la mafia, per impedire il quale bisogna individuare il momento esatto in cui l’intrusione avviene. La fase più delicata è senza dubbio la prima, ovvero quella dell’apertura dei nuovi esercizi. Successivamente vanno controllate le fasi della gestione (in cui avvengono gli investimenti) e quella della “galleria”, cioè del quadro aziendale fatto dagli azionisti, dagli imprenditori e dai dirigenti. Se si vuole risolvere il problema mafioso bisogna quindi intervenire a monte, prima dell’apertura di una attività”.