Partiti e partitocrazia

L’art. 49 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Troviamo due elementi essenziali: il diritto di tutti i cittadini di associarsi e la distinzione fra il contenitore-partito e la politica. Quest’ultima, come tutti sanno, è “la scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato e la direzione della vita pubblica”. Secondo la teoria aristotelica, la politica rappresenta il modo per condurre una comunità.
In tutte le civiltà avanzate vi sono i partiti e, come in ogni corpo vivente, vi è l’aggressione dei virus e dei batteri, per cui si verificano le deviazioni. L’Italia è campione delle deviazioni e dal 1980, all’incirca, è stata capace di trasformare la direzione dei partiti in partitocrazia.

In quell’epoca vi fu l’avvento di Craxi con il colpo di mano del Midas in cui riuscì a togliere la segreteria a Nenni e a imporsi con tutti i suoi gregari. Nel 1979, Andreotti profetizzava la solidarietà nazionale ed ecco che Craxi, per evitare di essere tagliato fuori, si impose con il piccolo 13 per cento del Psi, impadronendosi della tecnica dei due forni, tanto cara al divino Giulio.
Siccome la Dc non voleva andare all’opposizione, ma restare a governare a tutti i costi, la nuova accoppiata Dc-Psi non trovò di meglio che allargare i cordoni della spesa pubblica e quelli della pubblica amministrazione. Da quell’epoca in avanti, tutti i ministri autorizzarono l’immissione non solo nella burocrazia, ma anche nelle aziende statali, non ancora Spa, come Poste e Ferrovie, l’inserimento di decine e decine di migliaia di cittadini, tanto non importava quanto spendessero, perché pagava Pantalone. E chi se ne fregava di Pantalone.

 
Dal 1983 al 1987, si insediò il più lungo Governo del dopoguerra, presieduto dal leader meneghino, che continuò a spendere e spandere e aumentare l’organico pubblico. In pochi decidevano: gli oligarchi dei partiti. Il debito pubblico decollò da 200 mila miliardi del 1980 a due milioni di miliardi del 1992, quando quel regime partitocratico crollò. I dipendenti pubblici passarono da due milioni a tre milioni e mezzo: un numero abnorme. Soprattutto crollò la qualità dell’organico, perché i concorsi pubblici, previsti dall’art. 97 della Costituzione, si diradarono e, in questi ultimi 15 anni, sono quasi del tutto scomparsi.
Gli attuali partiti hanno peggiorato la loro democrazia interna. Non hanno statuti democratici, basta leggere l’ultimo del PdL in cui il presidente, cioè Berlusconi, ha tutti i poteri sostanziali. Non hanno bilanci certificati, possono ricevere finanziamenti anonimi fino a 49.999 euro (infatti l’obbligo di denunziare la liberalità scatta da 50 mila euro), non svolgono elezioni primarie per indicare i candidati fra i propri iscritti.

Quanto descritto porta alla conseguenza che vediamo sotto i nostri occhi, per cui il tasso di democrazia dentro i partiti è pari a zero, viene impedito il controllo dei cittadini e la qualità del personale politico si abbassa, perché le scelte non sono fatte in base al merito, ma alla fedeltà.
Tutto questo nuoce alla vita pubblica, perché quando gli amministratori non hanno i requisiti di cultura e professionalità almeno sufficienti e sono dei sòdali, prendono decisioni nell’interesse privato degli amici e non nell’interesse generale, come sarebbe loro preciso dovere.
La partitocrazia è una brutta bestia ed è la parte peggiore della gloriosa Democrazia cristiana, che ha contribuito a fare rinascere l’Italia coi grandi De Gasperi e Sturzo. Questa parte peggiore viene denominata democristianismo, di cui abbiamo ancora tanti campioni presenti nella vita politica italiana, che del trasformismo fanno il loro quotidiano.
Occorre ribaltare lo stato dei fatti, cancellare la partitocrazia e ripristinare i partiti costituzionali.