Paturnie italiane e onore al lavoro

Da qualche anno si è diffuso un modo di pensare fuori dalla realtà e cioè che vi siano lavori umili. Nessun lavoro è umile, se fatto con professionalità, capacità e voglia. Lavorare nei campi, essere addetti ai servizi alberghieri e di ristorazione, fare l’operatore ecologico e via enumerando non sono lavori umili, ma onorevoli.
La falsità diffusa deriva da un peccato originale, quello di attribuire al titolo di studio un valore legale. Con la conseguenza che vi sono laureati asini, maturati e diplomati ignoranti, mentre molte persone che hanno frequentato la scuola e l’Università con scarso profitto sono diventati ottimi imprenditori o eccellenti lavoratori.
La questione è usare la materia grigia di cui normalmente ognuno di noi è dotato, addizionata di volontà e tenacia, per raggiungere risultati che passano dall’autoformazione e la messa a frutto delle  esperienze di tutti i giorni.

Ha ragione il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, nell’invitare tutti i giovani dai 18 anni in avanti a fare qualunque tipo di esperienza lavorativa, mettendo al primo posto l’acquisizione di formazione e, subordinatamente, il compenso ricevuto.
Una volta, le famiglie pagavano il mastro perché addestrasse i propri figli. Dalle scuole artigianali sono venute fuori schiere di persone preparate e abituate a fare bene il proprio lavoro. Qui in Sicilia si cercano apprendisti sarti e non se ne trova neanche uno.
Vi sono tanti altri lavori a disposizione di giovani e meno giovani che avessero la volontà di lavorare imparando e imparare lavorando. Il connubio fra le due proposizioni è il migliore per crescere professionalmente.
Rendere onore al lavoro che si svolge, qualunque esso sia: lo Stato dovrebbe diffondere tale principio da imparare a  scuola e all’Università, e discuterne nelle famiglie, soprattutto dove vi sono bambini a cominciare dai tre anni per imparare le regole civiche, a partire da quelle scritte nella Costituzione. Proprio l’articolo uno della stessa Carta rende onore al lavoro.

 
La verità è che dietro la stupida affermazione che vi sono lavori umili non graditi agli italiani, in effetti, vi è il lavoro nero. Gli extracomunitari, ma anche gli europei dell’est, sono spesso sfruttati non già in quanto tali, ma in quanto con loro si può fare la voce grossa, sottopagarli e non versare i contributi previdenziali. Né dare ferie, né accantonare il Tfr.
Se i controlli degli ispettorati del lavoro, dotati di opportuni terminali informatici e di un sufficiente numero di investigatori, funzionassero al cento per cento, il lavoro nero sarebbe in gran parte debellato e a quel punto non ci sarebbe distinzione se assumere un italiano o un extracomunitario, il quale, pagato secondo il Contratto nazionale di lavoro,   non avrebbe alcuna ragione di rifiutare l’offerta.
Come si deduce da quanto scriviamo, la questione deriva dal solito furbesco modo di fare italico che fa vedere una cosa nascondendone un’altra. Non abbiamo sentito, fino ad oggi, qualcuno tirare fuori il caso, mentre abbiamo letto e ascoltato tanti caproni che in branco seguono un falso modo di dire.

Le paturnie italiane circa i lavori umili sono stomachevoli, mentre chi ha responsabilità istituzionali dovrebbe dire forte e chiaro che qualunque lavoro è onorevole, con ciò rendendo merito sociale a tanti che spesso, inopinatamente, si vergognano di ciò che fanno.
Se la valutazione delle competenze professionali fosse fatta mediante test, come avviene nel mondo anglosassone, si ribalterebbe il modo di valutare il tipo di lavoro. Perché verrebbe in primo piano il merito e non la formalità di tanti attestati cui non corrisponde una capacità professionale.
La remunerazione dovrebbe essere trasparente per tutti, cioè non dare luogo a evasioni di sorta, mentre, com’è noto, i tributi evasi in Italia sono stimati nella dimensione di 100 miliardi di euro l’anno, una cifra enorme.
Onore al lavoro, dunque, e a tutti quei soggetti che pagano regolarmente imposte e contributi.