Ciascuno di noi in Sicilia ha un suo personale aneddoto, incontro, scontro, con la realtà mafiosa, che sia il posteggiatore abusivo o il ‘tu non sai co cu stai parlando”. Non si intende per mafia ovviamente solo l’organizzazione mafiosa, ma la mafia culturale, sociale, a volte politica, perfino religiosa, se tanti religiosi han dovuto esercitare distinguo. La mafia, la mafiosità, è fuori di noi, intorno a noi, dentro di noi, anche in piccola parte, per osmosi, come il sale delle saline di Marsala e Trapani, con i loro mulini a vento che riempiono l’aria di particelle salate.
Ci vorrebbe un processo di osmosi inversa, per desanilizzare tutti i siciliani. La mafiosità è un modo di pensare, per la maggior parte non di agire. Forse, per assurdo, se tutti agissimo da mafiosi non ci sarebbero mafiosi. Perché la mafia ha bisogno di chi subisce, di chi china la testa.
Certo poi c’è chi la mafia, la mafiosità, l’ha vista più da vicino, perché ha vissuto in centri o borgate più intrise, di questo sale sulle piaghe dell’umanità che sono le privazioni, le lesioni dei diritti, l’ignoranza.
Ciascuno il suo fu uno dei libri di Sciascia più amati, da cui fu tratto nel 1967 il film di Elio Petri, con un intenso Gian Maria Volontà e un’iconica Irene Papas. È chiaro da sempre l’ambiente di nascondimento, di naturale predisposizione al delitto come mezzo per raggiungere un fine, sacrificando vittime collaterali, ma idonee a depistare. Una tale contorsione, doppi sensi, paludamenti dalla verità, contraddizioni, pubbliche virtù e intimi difetti, un battersi il petto alle processioni ma pretendere, ed acquiescere, all’inchino del Santo Patrono alla magione del potente, mafioso e prepotente pro tempore.
Il tempo è l’unica soluzione per i siciliani di liberarsi di qualcosa o di qualcuno, non la ribellione ad uno stato culturale di soggezione al potere, ma Cronos che rende tutti i potenti “pro tempore”. Poi avanti un altro, magari con una pausa in cui si respira, liberi dal sale nel mare di cui siamo circondati.
Così è se vi pare.