Palermo

“A pigghiata ru gelato”, un rito che racconta la città Palermo

In Sicilia , prendere un gelato è una cosa seria. Come il caffè per ì napoletani, “a pigghiata ru gelato” per ì palermitani è un vero e proprio rito che porta con sé un valore di gran lunga superiore a quello intrinseco del goloso e rinfrescante dolce da passeggio.

Passeggiando sul lungomare del Foro Italico del capoluogo siciliano, ci si imbatte, inevitabilmente, in una delle  gelaterie più antiche di Palermo dove si prepara il  gelato alla “scorzonera”, un gusto che consente di  assaporare davvero la città di una volta.

Il nome “scozonera” deriva da una pianta mediterranea conosciuta da tempi antichissimi, la scorzonera hispanica, la cui radice lunga e nera, commestibile e con proprietà benefiche, veniva usata per curare la peste e i morsi dei serpenti.

Il nome deriva dal latino medioevale curtio onis (vipera), da cui “scorzone” in italiano e “scurzuni” in siciliano. Sembra che, in origine, il gelato alla scorzonera, ottenuto dall’essenza di questa pianta, fosse un gusto a sé stante che veniva unito a quelli di gelsomino e cannella per creare una meravigliosa armonia di colori, profumi e sapori.

Nel tempo anche se il gusto “scorzonera” non è stato più prodotto, ha lasciato in eredità il proprio nome alla felice combinazione degli altri due gusti ( gelsomino e cannella) a cui era sapientemente associato visto il forte valore sociale ad esso attribuito nella cosiddetta “pigghiata ru gelato”.

In realtà, l’usanza di unire essenze e frutta ad un composto cremoso è stata introdotta in Sicilia dagli arabi che erano soliti bere per rinfrescarsi una sostanza dolciastra, refrigerata con la neve e preparata con latte o acqua, essenza di frutta, vaniglia e cannella.

Questo composto veniva chiamato “sciarbat” che significa sorbire, da cui deriva il termine sorbetto, per creare il quale venivano utilizzate le rare nevi dei monti palermitani, denominati proprio per questo dagli arabi pizzo Niviera, nei pressi di Giacalone, in cui la neve veniva conservata nelle cosiddette niviere, ossia delle buche scavate nel terreno, in cui veniva deposta la neve da utilizzare in estate, e poi ricoperte di paglia.

Con l’arrivo della calura estiva, la neve veniva, poi, collocata in ceste, rivestite all’interno con paglia e sale marino, trasportata di notte, a dorso di mulo, in città dove veniva conservata per mesi al fresco in profonde cantine.

I depositi più importanti di neve si trovavano in Vicolo della Neve a Piazza Marina e vicolo Viola, che con la bella stagione venivano presi d’assalto da tutti coloro che cercavano di accaparrarsi una piccola scorta della candida merce per refrigerarsi.

I siciliani, ed in particolare i palermitani, fecero tesoro di ciò che appresero dagli arabi e cioè che il succo di fiori odorosi come il gelsomino o di frutta di stagione, mescolati alla neve e dolcificati diventavano un ottimo sorbetto, un connubio perfettamente riuscito che, giunto fino a noi dal Medioevo, rappresenta la base del gelato dei nostri giorni.

Il sorbetto entrò, così, a far parte dei menù estivi dell’aristocrazia palermitana e i “monsù”, i loro cuochi personali, sbizzarrirono la propria creatività utilizzando gli agrumi, soprattutto arancia e limone, tipici dell’isola. Il vero boom però, si ebbe quando fu inventato il “gelato da passeggio”, poiché, fino a quel momento, per gustare una granita o uno “spongato” era necessario sedersi ai tavolini di in un bar o una gelateria. Per ore ci si sedeva in una delle gelaterie del Foro Italico ad osservare le carrozze sfilare e le dame passeggiare con abiti eleganti e bizzarri cappelli, piena espressione della Belle Epòque.

Chi poteva permetterselo  si sedeva in una delle gelaterie che avevano ì propri tavolini sul Foro Italico a guardavano “u passìo” ovvero la gente che faceva “le vasche” da una parte all’altra del lungomare.
“A pigghiata du gelato” diventava, così,  un’occasione per sfoggiare gli abiti “della domenica”, seduti ai tavolini in attesa del cameriere per l’ordinazione allietati dal suono di un’orchestrina femminile.

Le specialità allora di moda ( e che ancora oggi è possibile gustare) erano la cassata siciliana, gelato di anguria, riso di chantilly, gli schiumoni di panna e cioccolato, gli spongati di fragola e limone, il delicato gelato gelsomino, scorsonera e cannella, il tutto servito in coppe e piattini, con cucchiani scintillanti,  vero e proprio spettacolo per gli occhi ed il palato.

Continuando la nostra  passeggiata immaginaria lungo Via Messina Marine, si arriva nel quartiere Romagnolo, famosa per gli ex Bagni Petrucci e i Bagni Virzì, gli stabilimenti balneari in stile liberty che hanno fatto un’epoca. Anche qui è possibile gustare  altre specialità come ì  “pezzi duri”, tranci di gelato che resistevano più a lungo alle alte temperature estive, realizzati nelle due varianti bomba e giardinetto, che ancora oggi è possibile gustare.

I gusti spaziano dalla classica cassata all’antica, al caffè; al parfait; alla nocciola; alla fragola, limone e pistacchio; al riso paradiso con chantilly,  al cioccolato fino al torrone.

Caratteristica è la parte centrale, conosciuta come il tesoretto,  ricca di cioccolato canditi e mandorle.

Per gli estimatori, inoltre, è possibile gustare il gelato imbottito nelle versioni cioccolato, fragola, nocciola e caffè, “variegate” con golosi pezzi di pan di Spagna.

Fino a quarant’anni fa, infatti, il gelato si gustava unicamente sotto forma di “pezzi duri”chiamati alla napoletana  perché furono i primi a introdurre questo sistema di raffreddamento negli stampi resistenti nel trasporto, emblema d’una élite nobiliare, di cui esistevano svariate tipologie di cui la più celebre fu la “bomba gelato” che  divenne uno dei  must della gelateria palermitana.

Vero boom del dopoguerra  fu poi la “challotta” , gelato artigianale, dai gusti preferibilmente fruttati, riposto tra due croccanti cialde che, i venditori ambulanti, con i loro caratteristici carrettini, vendevano alla modica cifra di dieci lire per alleviare la gente dalla calura estiva che colpiva l’Italia poverissima e stremata dalla guerra.

Il prezzo della “challotta” variava da 10 lire per una “challotta semplice” a 20 lire per una challotta a più gusti , che i gelatieri più bravi riuscivano ad assemblare fino a cinque con l’ausilio di un’apposito attrezzo di metallo dalla forma quadrata all’interno del quale si inserivano prima le cialde, poi i gusti di gelato, poi nuovamente le cialde e grazie ad una spinta il tutto si compattava in un pezzo unico dando luogo alla challotta.  Un vero tripudio di bontà a costi modici.

Manuela Zanni