A giorni sarà un anno dall’attacco sferrato da Hamas contro i kibbutz israeliani posizionati attorno alla Striscia di Gaza, un gesto di feroce e disumano terrorismo, e per questo fine rivolto contro bambini, donne e civili indifesi. Un attacco non solo contro lo stato di Israele, ma avverso l’Occidente intero.
Una manovra destabilizzante scientemente ideata in un momento in cui la situazione in Medio Oriente aveva imboccato la via della normalizzazione a seguito degli accordi di Abramo, sottoscritti il 13 agosto 2020, tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti; un’aggressione che qualcuno ha anche ipotizzato possa essere l’avvio di una guerra per procura, voluta da Iran, Cina, Russia, Turchia e dall’Islam radicale, come Talebani, Fratelli Mussulmani e con la diretta partecipazione del gruppo armato degli Huthi dello Yemen e di Hezbollah, che da quello stesso 7 ottobre ha cominciato a lanciare in continuazione missili sul nord di Israele. La solidarietà che, sul momento, il mondo ha dichiarato ad Israele ha avuto vita assai breve. Hamas aveva ben chiaro, sin dall’inzio, che l’opinione pubblica delle democrazie occidentali sarebbe rimasta sempre più sconvolta dal crescere del numero delle vittime, conseguenza non voluta, della necessaria reazione di Israele e per questo aveva costruito, negli anni, tunnel, insediamenti, roccaforti e postazioni di fuoco nella immediata vicinanza di scuole, ospedali e popolose palazzine abitate da civili, luoghi tutti affollati da famiglie e bambini.
Perché Hamas sapeva bene che i preavvertimenti, con precisi inviti a sfollare i luoghi degli attacchi, dell’esercito israeliano potevano non funzionare, nel caos dei combattimenti, specie se avesse trasformato i palestinesi, che a parole dice di voler tutelare, in scudi umani. Così è avvenuto ed il contraccolpo, dato dal sempre crescente numero di queste vittime non volute, che sono divenute tante, anzi troppe, malgrado l’esercito israeliano, come è suo costume, abbia sempre sollecitato lo sgombero delle zone d’intervento, anche con la creazione di appositi corridoi umanitari, il conseguente dramma umano ha destabilizzato le democrazie occidentali ed ha spaccato le piazze, rimaste in mano ad accanite minoranze filo palestinesi. La reazione alle quotidiane notizie di una guerra che si protrae, con il permanere degli ostaggi civili israeliani in mano agli aggressori, che dopo averne rilasciato alcuni, in agosto ne hanno immotivatamente e capricciosamente, ucciso sei, e continuano a trattenerne ancora un centinaio. Anche questa è stata una sofisticatissima tecnica per creare aspettative, poi puntualmente deluse, per angosciare, ogni oltre limite le famiglie dei rapiti, che comprensibilmente e naturalmente ne reclamano la restituzione ad ogni costo.
Questo dramma così bene orchestrato, come previsto, ha comportato la conseguente frammentazione del fronte che sostiene il diritto di esistere dello Stato israeliano e già solo questo è stata una grossa vittoria dei terroristi aggressori, un inatteso successo per le sue dimensioni mondiali. Il filosofo francese Bernard Henri Levy, con il suo libro “La solitudine d’ Israele”, uscito in Italia a metà dello scorso mese di settembre si interroga su i tanti profili della divisiva situazione venutasi a creare sia in Israele che nel resto del mondo, che dichiara di esserle amico. Interrogativi sia di carattere etico, che politico-militare: siamo al cospetto di una aggressione contro il mondo ebraico o che riguarda intera coscienza universale? Un episodio atroce dell’eterno conflitto israelo-palestinese o una fase di un più complesso quadro di guerra internazionale? Il possibile collegamento con l’invasione dell’Ucraina? La risposta militare di Israele è stata proporzionata? L’incommensurabilità del peso del dolore delle vittime? Queste alcune delle domande che Levy nel suo saggio pone a sè stesso, dandosi risposte spesso sorprendenti.
Ed in capo ad ogni altra questione, il filosofo francese, che è stato sempre uomo di mediazione e per il compromesso, alla domanda se crede ancora nella soluzione due popoli e due Stati, risponde affermativamente, ma con l’irrinunciabile condizione che l’amministrazione dello stato palestinese non deve essere affidata ad Hamas, che altrimenti ne farebbe un enorme rampa di lancio di missili. Aggiunge verrà un momento in cui dovrà essere riconosciuta lo stato palestinese, ma quel momento non è ora. Altrimenti si rischierebbe di dare un messaggio ai terroristi di tutto il mondo, che ripetere quanto accaduto il 7 ottobre può essere lo strumento per ottenere tutto ciò che vogliono. Quindi per la soluzione dei due stati oggi non ci sono le condizioni, domani certamente sì, ma solo appena ci saranno.