ROMA – Il Dl n.18 del 17 marzo 2020, il cosiddetto “Decreto Cura Italia”, è legge.
Tra le novità c’è anche l’abrogazione della norma che concedeva all’Agenzia delle Entrate altri due anni di tempo per notificare gli atti di rettifica delle dichiarazioni riguardanti l’annualità 2015.
Per la verità contro questa disposizione c’è stata una levata di scudi da parte di tutti, persino dalla Corte dei Conti. È stata rilevata, infatti, una sproporzione tra le sospensioni concesse per l’emergenza Covid-19, molto brevi, e l’estensione dei termini (di due anni) entro i quali l’Amministrazione finanziaria può notificare i suoi atti.
Al riguardo, però, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ruffini, nel corso della sua audizione in Commissione Finanze alla Camera ha osservato che la proroga “incriminata” non andava vista come una mera agevolazione per il fisco. Venuta meno la possibilità di notificare gli atti riguardanti il 2025 entro il 2022, infatti, l’Agenzia sarà costretta a notificare entro il 31 dicembre tutti gli atti in scadenza, ossia una quantità di avvisi di accertamento, di rettifica, di liquidazione, avvisi di compliance, ecc., che si avvicina a 8,5 milioni. A questa quantità dovranno aggiungersi tutti gli altri atti che si dovranno notificare dopo la ripresa dell’attività ordinaria dell’Agenzia e, pertanto, gli atti che potrebbero arrivare ai contribuenti entro la fine dell’anno potrebbero essere anche 33 milioni, una potenza di fuoco del fisco che se è già molto pesante in un periodo ordinario, pensiamo quanto pesante potrà esserlo in un periodo delicato e di emergenza come quello che stiamo vivendo.
Anche alla luce di queste considerazioni, quindi, il buon senso del fisco diventa veramente essenziale. Mai come in questo drammatico momento il concetto di capacità contributiva diventa veramente importante.
Tra i requisiti necessari di un sistema tributario moderno e corretto dovrebbe stare, al primo posto, l’accettazione” dei tributi da parte dei cittadini i quali dovrebbero essere convinti che il prelievo fiscale che subiscono non solo è adeguato ai servizi pubblici che ricevono dallo Stato, ma anche conforme al principio della distribuzione della ricchezza, ossia al principio secondo il quale la ricchezza, proprio attraverso l’applicazione dei tributi, viene spostata dal “più ricco” al “più povero”, per consentire a tutti (sia al più ricco che al più povero) di fruire dei servizi pubblici in maniera assolutamente uguale.
Un concetto, che richiama i principi dalla Dottrina Sociale della Chiesa, che nel nostro Paese si realizza principalmente attraverso l’applicazione dell’art. 53 della Costituzione secondo il quale ogni cittadino è chiamato a partecipare alla spesa pubblica in base alla propria capacità contributiva.
La condivisione dei tributi da parte dei cittadini è un concetto che negli ultimi anni, con il nome di “tax compliance” o di “adesione spontanea all’obbligazione tributaria”, viene evocato molto spesso. Viene addirittura riconosciuto come uno degli obiettivi prioritari degli uffici fiscali.
Specialmente dopo l’emanazione dello Statuto dei Diritti del Contribuente, si è capito, infatti, che creare un clima di reciproca fiducia tra fisco e contribuenti tale da favorire l’adesione spontanea è forse il sistema più efficace per ridurre l’evasione, creare ricchezza ed occupazione e favorire la crescita del Paese.
Eppure, nonostante le affermazioni di principio fatte da tutti gli addetti ai lavori, compresa tutta la Pubblica Amministrazione, la strada appare ancora tutta in salita.
Oggi, però, con la drammatica situazione sanitaria, sociale ed economica che stiamo vivendo, con tantissime aziende sull’orlo del fallimento e tantissime persone senza lavoro o in procinto di perderlo, il concetto di capacità contributiva costituzionalmente previsto assume una importanza di gran lunga maggiore rispetto a quello che gli Uffici fiscali, da molti anni a questa parte, hanno ritenuto di applicare.
Sappiamo, infatti, che sicuramente a causa delle eccessive difficoltà di eseguire accertamenti analitici e puntuali nei confronti di tutti i potenziali evasori, che il nostro Legislatore ha preferito passare da un sistema di controllo assolutamente analitico, basato cioè su precise prove, specialmente quelle emergenti dall’Anagrafe Tributaria dalla contabilità, ad un altro sistema che si accontenta invece dell’esistenza di numerosi indizi di evasione e di numerose presunzioni ed indici di redditività.
Sono stati introdotti, infatti, numerosi sistemi di controllo e di accertamento tributario di natura presuntiva o addirittura induttiva, sistemi i quali, spostando in capo al contribuente l’onere della prova, hanno semplificato sicuramente l’attività degli uffici fiscali rendendo però più onerosa la difesa del cittadino.
Ricordiamo gli “studi di settore”, i “parametri” e tutti gli altri coefficienti di redditività creati per dare al fisco la possibilità di considerare il reddito del contribuente “congruo” o meno, imponendogli, in caso di mancato adeguamento al reddito presuntivo, l’onere di giustificare in maniera precisa lo scostamento.
Dall’anno scorso, però, gli sudi di settore sono stati eliminati, ma al loro posto sono stati introdotti gli “Indici di affidabilità Fiscale” (gli Isa) i quali, prevedendo anche in questo caso ricavi astrattamente determinati, assegnano punteggi di affidabilità, da 1 a 10, in base ai quali il contribuente può risultate penalizzato con l’inserimento in una black list, ovvero premiato con piccoli vantaggi come l’esonero del visto di conformità in caso di compensazione o della garanzia in caso di rimborso Iva, con l’esonero dell’applicazione della normativa sulle “società non operative”, con l’esclusione dagli accertamenti basati su presunzioni semplici, nonchè con la riduzione di un anno del termine di decadenza per l’attività di accertamento dell’ufficio.
Un sistema, anche quello degli Isa, che evidentemente mal si concilia con l’attuale situazione economica e sociale legata alla gravissima situazione sanitaria causata dal virus, situazione caratterizzata, principalmente, da mancati ricavi e dalla mancanza di liquidità finanziaria.
Ma non sono soltanto gli studi di settore e gli Isa gli strumenti di controllo e di accertamento che contengono elementi di presunzione.
Esistono, infatti, gli accertamenti da “redditometro”, che consentono la determinazione indiretta del reddito complessivo sulla base della capacità di spesa, ossia tenendo conto della disponibilità da parte del contribuente di taluni beni considerati indicatori presuntivi di capacità contributiva.
Ma esistono pure altre forme di presunzioni che, per un motivo o per l’altro, servono ad indurre il contribuente, ditta individuale o società, a dichiarare un ammontare di volume d’affari, di ricavi o di reddito “atteso” dal fisco, al fine di non incappare nelle preclusioni o penalizzazioni che la legge prevede.
È il caso, per esempio, delle cosiddette “società non operative”, più comunemente denominate, volendo assecondare il pregiudizio negativo al quale ha voluto alludere il Legislatore, “società di comodo”, ossia quelle società le quali, non riuscendo a superare un “test di operatività” basato sull’applicazione di alcuni coefficienti, oppure quelle in situazione di costante perdita per un periodo di tre anni, non solo sono tassate in modo induttivo con l’applicazione di specifici coefficienti, ma, cosa ancora più grave, ai fini Iva, sono escluse dalla possibilità di ottenere il recupero dell’Iva pagata “a monte”. Penalizzazioni, queste ultime, che, se la non operatività è assolutamente fisiologica, come certamente accade per molte aziende in questo particolarissimo periodo, diventano assolutamente contrarie a qualunque principio costituzionale, giuridico ed anche di buon senso.
Per non parlare, poi, dei vigenti criteri di determinazione del “momento impositivo”, sia ai fini Iva che ai fini della determinazione dei ricavi e del reddito, criteri che in moltissimi casi prescindono dalla effettiva percezione del corrispettivo prendendo in considerazione, invece, momenti diversi come la consegna del bene, l’ultimazione della prestazione di servizio o l’emissione della fattura o, come accade nel caso di società di persone con attribuzione degli utili ai soci “per trasparenza”, all’attribuzione di tale forma di reddito in base alla percentuale di quota posseduta, prescindendo dall’effettivo pagamento ai partecipanti.
Ecco quindi che, se si vuole veramente evitare di penalizzare ulteriormente una parte estremamente significante della nostra economia, oltre alle sospensioni già disposte o da disporre, oltre agli aiuti di natura economica previsti dalla legge, è necessario intervenire al fine di mettere a punto un sistema che, quanto meno in via provvisoria, fino alla completa soluzione della pandemia e dei relativi problemi economici e sociali, riveda molti dei principi fiscali finora adottati, trovando un sistema che possa avvicinarsi, in maniera molto più realistica del passato, alla vera capacità contributiva dei cittadini.