Adozione, un Istituto dedicato ai minori in stato di abbandono, finalizzato ad assicurare loro una famiglia e un contesto di vita sano entro il quale crescere in autonomia e salute.
Un Istituto nobilissimo, dall’ispirazione umanitaria: l’ottica entro cui si muove l’adozione internazionale, un vero e proprio modello di società civile improntato alla solidarietà per i minori vittime di povertà, economica e non solo, delle famiglie di origine.
Un nuovo progetto di vita a tappe, dalla dichiarazione di disponibilità degli aspiranti genitori adottivi all’incontro all’estero con il minore che risente, oggi, delle restrizioni proprie della pandemia.
Di tali aspetti problematici, senza mancare di sottolineature positive, abbiamo parlato con la dottoressa Roberta Scimeca, psicologo appartenente all’interno dell’Associazione “L’Insieme Famiglia ONLUS”, Organizzazione No Profit operante a Palermo in relazione, tra gli altri, all’istituto dell’adozione.
Dottoressa Scimeca, può innanzitutto illustrarci l’istituto dell’adozione internazionale?
“Il bambino viene dichiarato adottabile quando la sua famiglia di origine non può soddisfare le sue esigenze primarie – apre Scimeca – . Parliamo di traumi evolutivi importanti, a partire dai quali si cerca di trovare una famiglia a un bambino e non viceversa, questo è un nodo importante. Da qui l’importanza di corsi di formazione ad hoc affinché le famiglie adottive rispettino l’interesse supremo del bambino ad avere una famiglia supportiva. Il percorso di valutazione delle famiglie mira a sondare le aspettative degli aspiranti adottanti e, nel caso dell’adozione internazionale, ricevuta l’idoneità, la famiglia si rivolge a un Ente autorizzato che la mette in contatto con il Paese estero. Riguardo il tempo di attesa esso è variabile, e può protrarsi anche tre anni”.
Alla luce di questo percorso, in che modo la pandemia ha influenzato la riuscita dell’adozione? Si può parlare di influenza negativa?
“Indubbiamente la pandemia ha apportato notevoli disagi, innanzitutto il poter mantenere vivo il desiderio di adottabilità – continua l’esperto –. Nello specifico stiamo assistendo a coppie pronte per partire per l’Estero, ma deluse e bloccate dalle restrizioni necessarie per motivi sanitari, ma anche a coppie che si trovavano all’estero e sono state rimpatriate con notevoli disagi. Ricordo ancora quanto accade in Russia: coppie di aspiranti genitori adottivi, rientrate in Italia dopo un primo incontro conoscitivo con il minore, e impossibilitate a effettuare a breve un secondo incontro. Soprattutto con la chiusura per mesi delle frontiere di alcuni Stati, come la Cina, abbiamo quindi assistito alla sofferenza dei bambini che vedevano allontanarsi la possibilità di un abbinamento. Ciò ha provocato un notevole decremento del numero di adozioni internazionali, complice anche il problema della crisi economica in pandemia: dopo il boom culminato nel 2010, si è infatti passati da 4000 adozioni internazionali nel 2010 a un numero esiguo di soli 500 nel 2020”.
Problematicità evidenti, ma esiste qualche nota positiva in questo scenario? “Si, effettivamente la pandemia ha spinto alcuni Paesi tra i più poveri, come la Colombia, a utilizzare le risorse costituite dai mezzi telematici, anche per effettuare sentenze online: un dato confortante a beneficio dei bambini. La pandemia non ha insomma annullato la possibilità di colloqui, seppur virtuali, con i minori e di monitoraggio della fase post-adozione – conclude Scimeca –. Un ulteriore nota positiva da segnalare, in tempi di lockdown, è stata la possibilità di vivere in maniera ovattata nella famiglia adottiva, senza stimoli distraenti esterni, come la scuola, e di sperimentare una forte comunicazione interna con il bambino, creando una sorta di bolla di grande intimità con il minore”.
Angela Ganci