Inchiesta

Allarme crack in Italia e in Sicilia: quel veleno a basso costo che uccide i giovani e i più poveri

PALERMO – Secondo la Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze 2023, inviata al Parlamento dal sottosegretario Alfredo Mantovano, preoccupante è l’incremento nella fascia giovanile rispetto ai dati riferiti al 2021 (aumento dei consumi dal 18,7% al 27,9%) con un aumento rilevante soprattutto per cannabinoidi sintetici e Nps. Lo stesso Rapporto mondiale sulla droga 2022 dello United nation office of drugs and crime ha confermato l’aumento nella coltivazione e nel traffico di cocaina, nonché l’esponenziale crescita nella produzione e commercializzazione delle nuove sostanze psicoattive, individuando nella popolazione giovanile a livello planetario il target privilegiato per l’offerta delle sostanze stupefacenti e riconoscendo necessarie nelle Agende dei Governi le decisioni condivise in tema di politiche di prevenzione, cura e contrasto alle droghe illegali per la tutela della salute delle popolazioni.

Oggi, tra le sostanze stupefacenti più consumate, quella che primeggia è il crack, droga nata in America e diffusasi negli anni Ottanta. La sostanza è un derivato della cocaina, solitamente di scarsa qualità, tagliata con bicarbonato o ammoniaca, che provoca in tempi brevi una grave dipendenza fisica e psichica, che si manifesta con tachicardia e manie suicide. Questa droga, originariamente, fu concepita e sintetizzata per uno scopo ben preciso: era destinata ai cocainomani cronici come sostituto della cocaina, in quanto l’assunzione nasale della cocaina provocava la distruzione dei tessuti, per cui rappresentava l’unica modalità di assunzione alternativa. Successivamente il crack si diffuse anche tra chi non assumeva inizialmente cocaina. I primi segnali di un boom del crack nel mondo della droga si ebbero a partire dal 1980, ma in accordo con la Drug Enforcement Administration il periodo di crisi di legalità iniziò nel 1984 per finire soltanto nel 1990, in quello che può essere considerato l’apice dell’epidemia.

Ma dopo un periodo in cui il suo consumo è calato, i crescenti accessi ai Sert (Servizio per le tossicodipendenze, ndr) e ai Serd (Servizi per le dipendenze patologiche, ndr) nelle Aziende sanitarie provinciali della Sicilia, dimostrano come negli ultimi dieci anni il crack abbia iniziato a diffondersi dalle città del Nord della Penisola a quelle del centro, per poi arrivare anche in Sicilia colpendo pesantemente Palermo e Siracusa.

A differenza della cocaina, il crack ha la pericolosa caratteristica di costare molto poco perché con dosi da 5, 10 o 15 euro i giovanissimi possono accedervi facilmente ed è proprio per questo motivo che si sta diffondendo a macchia d’olio provocando, in alcuni casi, anche la morte. Li hanno chiamati “zombie”, questi ragazzi e ragazze che dopo il consumo siedono nei gradini dei vicoli dei centri storici. E, purtroppo, si cominciano a contare i morti.

Era il 5 dicembre 2020 a Palermo quando venne rinvenuto il cadavere di Noemi, una giovane donna di circa 30 anni ed era il 15 settembre 2022 quando morì Giulio Zavatteri, un ragazzo di 19 anni. Rappresentano la punta di un iceberg che è ben celato dalle zone oscure delle città, quelle zone in cui, per procurarti i soldi per l’acquisto di una dose di crack si ruba o ci si prostituisce.

Esistono strutture sanitarie preposte che hanno il compito di effettuare la cosiddetta assistenza di prossimità ma, come per tutte le altre strutture sanitarie, soffrono di carenza di organico. Il personale per i Serd della città di Palermo è attualmente composto da 25 unità a fronte di un’utenza costituita da circa tremila persone, quando – in accordo al Dm 444/1990 concernente la determinazione dell’organico e delle caratteristiche organizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipendenze – dovrebbero esserci almeno 110 operatori, più altri dieci per le carceri, tra medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori e amministrativi.

Nell’ultimo anno, complice purtroppo anche la morte di Giulio Zavatteri, sembra che qualcosa abbia iniziato a muoversi anche se l’interesse della popolazione è calato, come dimostra la partecipazione sempre meno alta, delle varie iniziative pubbliche che vengono fatte per far sì che anche questo dramma non finisca nell’oblio. Oggi c’è la Casa di Giulio aperta a Ballarò – fortemente voluta Francesco Zavatteri, il padre del ragazzo – che, più che un ambulatorio, è un luogo in cui chi fa uso di sostanze stupefacenti entra convinto di non avere speranze e ne può uscire avendo recuperato fiducia in se stesso. L’equipe che ne fa parte si caratterizza anche per il lavoro che compie in strada cercando e incontrando i giovani consumatori nelle piazze e nei vicoli del centro storico.

Anche la politica sembra essersi assunte le proprie responsabilità: da un lato l’intergruppo parlamentare dell’Ars ha presentato, primo firmatario il deputato Ismaele La Vardera, il disegno di legge “La cura crea indipendenza”, redatto dalla professoressa Clelia Bartoli, del Dipartimento di Giurisprudenza di UniPa, e dai suoi studenti, con il sostegno delle associazioni Sos Ballarò e “La casa di Giulio” che ha superato il vaglio dell’approvazione in Commissione.

E qualcosa si muove anche al di là del Ddl, con la realizzazione del Centro d’accoglienza per dipendenti da crack da settecento metri quadri realizzato nel padiglione 13 del complesso dell’ex ospedale psichiatrico di via Gaetano La Loggia, di proprietà dell’Asp di Palermo, finanziato interamente con soldi pubblici e inaugurato lo scorso 26 gennaio. A gestire il centro sarà un’equipe multidisciplinare: oltre a uno psichiatra, ci saranno psicologi, educatori sanitari, tecnici della riabilitazione, assistenti sociali, sei infermieri e sei operatori sanitari. Un primo passo che deve rappresentare, però, un punto di partenza perché le storie di Noemi e di Giulio, sono quelle dei nostri figli, sono le nostre.

Dall’eroina degli anni Settanta al crack, una storia che si ripete. Melati: “La mafia cambia pelle ma non i suoi business principali”

Piero Melati, giornalista e scrittore

“Per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa Cosa nostra, le indagini, coordinate dalla Direzione, rivelano, anche nell’anno in esame, una sua persistente vitalità, un reiterato interesse al traffico di stupefacenti, una notevole capacità di adattamento ai mutamenti di contesto ed un approccio pragmatico al redditizio business del traffico di droga, che genera enormi profitti, a fronte di minori rischi, rispetto ad altri reati tipicamente mafiosi (quali ad esempio le estorsioni), ed è tornato a rappresentare una voce fondamentale nel bilancio di questa potente organizzazione criminale”. In questo quadro “è prevedibile che le famiglie mafiose siciliane, per quanto attiene all’importazione dai Paesi produttori e alla successiva distribuzione sul territorio nazionale, continuino a permanere in una posizione di subalternità rispetto alle organizzazioni della ’ndrangheta e della camorra e che la ricerca di fornitori calabresi e campani lasci spazio all’individuazione di canali propri e di una ‘logistica sicura’, tali da garantire ’approvvigionamento di ingenti quantitativi di stupefacente da gestire in autonomia”. Questo quanto si legge nella relazione annuale 2023 della Direzione centrale dei servizi antidroga.

Nel tempo, la criminalità organizzata di stampo mafioso ha sempre trovato remunerativo il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti, generando non solo fenomeni di disagio sociale ma anche morti, che dovrebbero essere considerate tra la vittime degli interessi della mafia. A tal proposito, interviene al QdS Piero Melati, giornalista e scrittore, che ha scritto prima per il quotidiano “L’Ora”, occupandosi della seconda guerra di mafia e del Maxiprocesso a Cosa Nostra, e poi per “Repubblica”.

Lo spaccio di crack a Palermo fa venire in mente il parallelismo con il fiume di eroina che invase Palermo, ma non solo, negli anni Settanta e il livello di business che, allora, permise alla criminalità organizzata di stampo mafioso di generare enormi profitti vendendo morte…
“È evidente che lo spaccio di sostanze stupefacenti sia ancora il maggior business della mafia. I recenti dati degli osservatori internazionali sui narcotraffici lo indicano, per esempio rispetto al Pil messicano, al 24% ed è un business che vale centinaia di milioni di dollari in tutto il pianeta. Sicuramente, al di là delle modifiche organizzative delle mafie, questo è un business che rende molto di più delle estorsioni e del pizzo. Quando le mafie hanno scoperto l’enorme quantità di denaro che si poteva sviluppare hanno deciso di puntare sul traffico e sullo spaccio delle sostanze stupefacenti, incuranti di quelli che potremmo definire effetti collaterali, ossia la morte di persone”.

È cambiata l’organizzazione ma la capillarità della rete di spaccio è sempre più alta…
“Non dimentichiamo che l’esperienza degli anni Settanta aveva creato una rete che, in realtà, non si è mai dissolta. Questa rete, oggi, ha scoperto di avere, ereditariamente parlando, le competenze per proseguire nella gestione delle attività. Negli anni Settanta si sono trovati tra le mani l’eroina e hanno appreso come commerciarla. Nella memoria storica di queste famiglie è rimasta una competenza e oggi, con la riproposizione di una droga come il crack, si è passati dai piccoli depositi di via Messina Marine alle abitazioni in cui si trovano, tra i ragazzi che fanno i compiti e le donne che svolgo banali attività domestiche, bilancini, macchinette contasoldi e la pentola per cucinare il crack”.

Sembra che non siano cambiate le contromisure dello Stato. Oggi come allora, sembra quasi si preferisca guardare da un’altra parte…
“Concordo. In questi vicoli si vive di cattiva informazione. All’inizio non mi spiegavo il boom del crack, che sembrava terminato all’inizio degli anni Novanta. Purtroppo il crack costringe l’assuntore a fumare continuamente e pertanto genera comportamenti criminali indotti. In realtà cucinare crack in casa è facilissimo, al contrario del raffinare eroina e su Youtube si trovano addirittura video che lo spiegano. Basta che una normale famiglia abbia a disposizione la materia prima, che è fornita da quelli cui arrivano i carichi dalla ‘Ndrangheta calabrese o dalla Camorra napoletana, e il gioco è fatto. Gli esperti continuano a divedersi tra quanti dicono ‘a me non interessa chi la traffica nel mondo ma devo ridurre il danno nei consumatori’ e quanti dicono ‘dobbiamo fermare le grandi organizzazioni criminali planetarie perché se no la droga continuerà ad arrivare’. Questa contrapposizione mi ricorda, inevitabilmente, quelli che dicono ‘la mafia ha vinto’ e quanti dicono ‘la mafia ha perso’. Contrapposizioni così nette impediscono di avere lucidità nell’affrontare il problema. Lo Stato continua a comportarsi in maniera inadeguata perché da un lato c’è la droga da strada e dall’altro il servizio sanitario, che non è in grado di affrontare il problema, di riuscire a valutare la figura del cosiddetto ‘addict’, il consumatore compulsivo di qualche cosa. Parliamo di droga ma potremmo parlare di ludopatia, alcolismo o tabagismo. È necessario creare nuove strade terapeutiche per affrontare il danno, perché i consumatori compulsivi devono avere coscienza di chi sono diventati per poter uscire dal loro loop perverso. I terapeuti, contestualmente, non hanno gli strumenti adeguati e spesso sono pochi rispetto alla quantità necessaria sul territorio e quindi non sono riusciti a fare quel salto di qualità necessario”.

Non basta una legge per risolvere il problema…
“È evidente. Le operazioni di contrasto delle Forze dell’ordine sono quotidiane, e lo dimostrano i continui blitz e sequestri. Ma bloccare l’arrivo di droghe a una cosca non è sufficiente perché spacciare crack, per molte famiglie è diventato uno strumento di sostentamento. Inoltre il fatto che il crack si fumi, come succede con lo spinello, lo fa sembrare meno pericoloso. Manca una corretta e continua informazione perché gli stessi assuntori non ne conoscono gli effetti collaterali”.

Anche l’attenzione dell’opinione pubblica è scemata?
“Purtroppo ci si abitua a tutto e non esiste mai una soglia oltre cui non si può andare. Facciamo il parallelismo con le stragi del 1992 e ci accorgiamo che se lo Stato non avesse deciso di ‘scendere in campo’ in maniera prepotente non ci sarebbe stata quella che definiamo presa di coscienza della popolazione. Inoltre bisogna tenere conto che le manifestazioni, dopo un po’, fanno nascere il dubbio che possano servire. Non basta un camper, perché la droga resta una storia che riguarda solo la famiglia. Nell’ultimo periodo, proprio dalle famiglie che hanno subito la perdita, c’è stata una condivisione pubblica, atto coraggioso che ammette, implicitamente, una presa d’atto della propria responsabilità. Serve uno sforzo collettivo della società, mentre per ora ci si è accontentati del fatto che si è passati da una droga generazionale degli anni Ottanta a un consumo di droga che ha coinvolto tutte fasce sociali della società. Quelle borghesi evitano il crack, ma consumano cocaina. Parliamo di tutto, dal panettone della Ferragni alla vittoria di Sinner, tutti argomenti di distrazione di massa. Dovremmo parlare con altrettanta partecipazione del consumo di droga e delle vittime”.

Gianpaolo Spinnato, Asp Palermo: “Rischio patologie psichiatriche”

Sulla questione crack abbiamo sentito Gianpaolo Spinnato, direttore della a Uoc Dipendenze patologiche, afferente al dipartimento di Salute mentale, Dipendenze patologiche e Neuropsichiatria dell’infanzia dell’Asp di Palermo.

Dottor Spinnato che cos’è il crack?
“Un derivato dalla cocaina lavorato con una sostanza basica. Si generano così dei cristalli che, una volta riscaldati, emettono un vapore che viene inalato. Rispetto alla cocaina, ha una concentrazione maggiore di principio attivo ed è in grado di generare un effetto più forte ma meno duraturo”.

È una forte controindicazione?
“Questo lo rende molto pericoloso, perché l’effetto forte tende a destabilizzare di più il sistema psichico della persona che lo utilizza e, proprio per la brevità dell’effetto, fa emergere il desiderio di farne uso continuamente. Sembra quasi che chi fa uso di crack non ne sia mai sazio. L’uso diventa continuo e ripetuto portando alcuni soggetti a utilizzarlo 15-20 volte al giorno. Sollecitare così il sistema nervoso, facilita l’emergere di disturbi di tipo psichiatrico, diventati più frequenti con la diffusione del crack”.

Si tratta di danni reversibili?
“Sì, ma nel tempo. Esistono disturbi organici cerebrali legati all’uso cronico del crack nel tempo. Nei Paesi che hanno avuto l’epidemia di crack, come gli stati Uniti, questi esiti sono documentati. Non bisogna dimenticare che, trattandosi di un derivato della cocaina, ha anche gli stessi effetti collaterali dannosi cardiocircolatori: dalle aritmie all’arresto cardiaco. Quando però il crack è assunto per lungo tempo e soprattutto nei soggetti più giovani si può sviluppare una patologia psichiatrica che, a volte, può rimanere”.

I giovani che si rivolgono a voi di quale assistenza hanno bisogno?
“Tutti gli psicostimolanti, cocaina, crack e metanfetamine, non hanno una terapia farmacologica specifica. Esistono farmaci che possono lavorare su alcuni effetti, ma non sul desiderio compulsivo di assumere droga. Questo significa che la presa in carico dei consumatori di crack crea un impegno, in termini relazionali e quindi di tipo psicologico, molto più forte perché in mancanza di una cura farmacologica quello diventa lo strumento principale. È evidente che i trattamenti residenziali diventano molto più importanti rispetto a quelli ambulatoriali che risultano meno efficaci”.

Di recente si è parlato di Calixcoca, un vaccino contro cocaina e i suoi derivati. Di che cosa si tratta?
“Lo studio di un vaccino risale a molti anni fa, ma ancora non sappiamo se lo avremo e quando. Si tratta di una terapia per cui il sistema immunitario dovrebbe riuscire a bloccare la cocaina e i suoi derivati, impedendo a essi di entrare nel sistema nervoso. Si tratta di una fase sperimentale, ma rimane da verificare se un anticorpo di questo tipo, che è specifico per la cocaina, non attacchi anche altre strutture con il rischio di innescare malattie autoimmuni. Potrebbe essere, per chi decide di farlo, un’arma in più”.

Francesco Zavatteri, il ricordo di Giulio e la necessità di non dimenticare

Francesco Zavatteri è il papà di Giulio, il diciannovenne che il 15 settembre 2022 è morto a causa dell’abuso di crack. Da quel giorno, si batte per evitare che il destino capitato al figlio possa colpire altri giovani.

Dottor Zavatteri, è stato inaugurato qualche giorno fa il primo centro di ascolto e di assistenza specifico per le vittime di crack. Ritiene che sia un passo importante?
“Sì, anche perché si tratta di una richiesta che abbiamo presentato noi come ‘Casa di Giulio’ all’assessorato regionale alla Salute, subito accolta dal dirigente, il dottor Salvatore Iacolino, che in brevissimo tempo ha reperito i fondi necessari e, in tempo record, è riuscito a farlo realizzare”.

Lei ha vissuto un dolore che nessun genitore vorrebbe vivere, cui corrisponde anche la consapevolezza che non esisteva nessun supporto possibile per affrontare quanto stava succedendo…
“Purtroppo non ci sono state le competenze adeguate. Giulio era un ragazzo eclettico, che svolgeva molte attività, con un’intelligenza importante ma con un malessere talmente profondo e radicato che nemmeno noi siamo riusciti a intercettarlo nel modo adeguato. Dopo la sua morte ho riletto le cose che scriveva, ho riguardato quanto disegnava e mi sono reso conto che esprimeva un simbolismo molto particolare. Quello che mi rimprovero, come genitore, è di non aver abbandonato, per il tempo necessario, il mio lavoro in modo da dedicarmi esclusivamente a lui. Nell’ultimo periodo ero riuscito a riavvicinarmi, ad abbracciarlo, a fargli percepire concretamente che non era solo. Aveva capito quanto gli volessi bene, anche perché chi fa uso di crack perde la percezione del sé e degli affetti che lo circondano”.

Qual è il ricordo più doloroso?
“Quando, quella mattina, l’ho trovato senza vita di fianco al suo letto. Spesso la notte mi alzavo per vegliarlo ma, proprio quella notte, ho dormito senza svegliarmi. L’ho trovato alle 6,30 quando, oramai, era senza vita”.

La reazione della città, nel tempo, sembra essere scemata…
“Queste vicende drammatiche appartengono a chi le vive in prima persona. Spesso, come società, consideriamo chi consuma droga come uno che se l’è andata a cercare. Quando ho visto Giulio in quelle condizioni mi sono piegato su me stesso e lo sono ancora. Ma abbiamo deciso di uscire, di andare a Ballarò per capire, per affrontare al contrario la strada che Giulio ha percorso. Abbiamo incontrato altre vittime della dipendenza, che avevano intrapreso un percorso di autodistruzione che io definisco una sorta di eutanasia di Stato. A Palermo, questo fenomeno era sotto gli occhi di tutti da otto anni. Tutti lo sapevano ma preferivano voltarsi dall’altra parte perché erano pochi i ragazzi in dipendenza e i decessi. Ora il campanello di allarme è diventato una campana e ci si rende conto che questo fenomeno attraversa tutti i ceti sociali”.

Avete deciso di non dimenticare e di non far dimenticare…
“Qualche giorno dopo la morte di Giulio, ho capito che era necessario che la sua morte non finisse nell’oblio. Il primo passo è stato realizzare un evento al Teatro Massimo, trovando da subito la disponibilità del sovraintendente Marco Betta. Sono state coinvolte tutte le autorità palermitane, i giovani e i genitori. Era importante coinvolgere i giovani: una generazione che io definisco malata perché non ha vissuto la privazione di nulla, perché è abituata ad avere tutto e subito, senza preoccuparsi della sua provenienza. Così i ragazzi e le ragazze si deprimono e non sono più in grado di apprezzare la qualità delle cose. Al tempo stesso era fondamentale che ci fossero i genitori, generazione altrettanto malata, perché non sa più dialogare con i figli e li copre di doni per compensare le proprie mancanze e assenze educative. Dopo questo evento era necessario creare qualcosa di concreto, un ‘buen retiro’ per i ragazzi”.

Cosa sarà la “Casa di Giulio”?
“Abbiamo partecipato a diversi tavoli tecnici dell’assessorato alla Salute e del Comune di Palermo che ci ha dimostrato la sua disponibilità massima. La ‘Casa di Giulio’ sarà organizzata in tre drop-in, tre centri a bassa soglia in cui i ragazzi, che spesso vivono per strada, possono trovare accoglienza, supporto medico, un indirizzo terapeutico e un luogo in cui sostare che non sia la strada. Si potrà fare una colazione o una cena o un pranzo sani, una doccia. Sarà uno spazio che rappresenterà anche la possibilità d’incontro con i genitori, che spesso sono costretti ad allontanarli da casa perché violenti, perché rubano per poter comprare il crack. Saranno realizzati, inoltre, uno sportello legale e uno di avviamento al lavoro, perché togliersi lo stigma del tossico è un’impresa difficile”.

Sos Ballarò: sul territorio mancano adeguati presidi sanitari

Per approfondire l’impatto del consumo di crack sui territori abbiamo sentito Francesco Montagnani, antropologo e attivista dell’associazione Sos Ballarò.

Qual è la situazione a Ballarò?
“La situazione di oggi è critica ma non si tratta di un’esplosione, bensì di una fiammata che arriva da lontano. Come Sos Ballarò, ma non solo, già nel 2017/2018 avevamo notato che c’erano problemi legati all’uso massiccio di sostanze e le persone che lavoravano nel quartiere avevano provato a metterlo in evidenza. Il segnale era chiaro: quando a Ballarò, per strada, vedi gruppi di cinque-sei ragazzi che evidentemente fanno uso di sostanze in maniera continuativa, arriva un segnale che è necessario trasformare in un allarme. Durante la pandemia si è entrati in una sorta di stato di quiete ma, al termine, la mafia, che aveva i ‘magazzini’ pieni, li ha riversati sulle strade. La situazione è grave ma non apocalittica e non si deve demonizzare chi ne fa uso. Il problema non è la cinquantina di ragazze e ragazzi che nel quartiere ne fanno uso ma il fatto che, secondo la nostra lettura, non ci siano servizi, non si siano alternative e che non ci sia un contrasto capillare e costante alla criminalità organizzata. La situazione deve essere ritenuta grave soprattutto per la mancanza di servizi”.

Grave ma non gravissima?
“Direi grave ma risolvibile”.

Ballarò, oltre a essere un’importante piazza di spaccio può essere considerata anche il luogo in cui i residenti sono tra i principali acquirenti?
“Assolutamente no, anzi è proprio il contrario. La tradizione del quartiere, quella di ospitare uno dei marcati storici della città, l’ha trasformato in un luogo in cui alla tradizionale offerta si è aggiunta quella delle sostanze stupefacenti ma i residenti sono la minima parte degli acquirenti. Si viene a Ballarò per comprare e magari consumare nei vicoli”.

È giusto limitare a Ballarò il fenomeno del crack?
“Ancora una volta no. Il problema riguarda anche altri quartieri della città come lo Sperone, Brancaccio, Settecannoli e, più generale, tutta la Sicilia. Lo dimostra il fatto che siamo stati contattati da Catania, Enna, Ispica, Trapani, Messina ma non solo perché abbiamo ricevuto richieste di collaborazione al contrasto da Firenze, da Pisa, da Parma e da Bologna”.

Il 26 gennaio scorso è stato inaugurato a Palermo il primo centro di accoglienza e supporto delle vittime di quella che può essere definita “epidemia di crack”. È evidente, però, che mancano i presidi sanitari locali. Qual è la vostra posizione rispetto a questa che potremmo definire “scelta scellerata”?
“L’aziendalizzazione della sanità ha portato alla situazione attuale, anche dal punto di vista organizzativo. La Legge 309/90 (il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, nda) prevedeva per ogni unità sanitaria locale la presenza un servizio per le tossicodipendenze. Significa che ogni 70-80.000 abitanti doveva esserci un servizio ma quando, a Palermo, siamo passati dalle nove Usl alle cinque Asl, per legge i presidi sanitari specializzati sono dovuti diventare cinque, raddoppiando il bacino di utenza. È evidente che il servizio è più difficilmente erogabile soprattutto nei momenti di emergenza. Purtroppo la scelta di mantenere il pareggio di bilancio, il rispetto dei budget, e non sto dicendo che sia sbagliato, ha fatto sì che diminuissero i servizi all’utenza. I livelli essenziali d’assistenza, garantiti dalla normativa europea recepita dal Parlamento italiano e non accolta, ad esempio, dalla Regione Siciliana, non sono stati attuati e per questo abbiamo presentato un disegno di legge regionale specifico. Il problema vero è che, in una logica di aziendalizzazione sanitaria, la cura delle dipendenze non fa business e non rientra nei budget”.